Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva nelle mani dei Khmer rossi. Quel giorno, per la Cambogia cominciava un incubo durato quasi quattro anni, destinato a trasformarsi in una delle più atroci tragedie del Novecento. Il Paese entrava in una spirale di violenza, fanatismo e terrore, orchestrata da un regime che predicava la purezza rivoluzionaria e praticava lo sterminio sistematico. Eppure, in molte redazioni europee non si celebrava la fine di un’era sanguinosa, bensì l’inizio di un presunto “esperimento rivoluzionario” che, secondo certi intellettuali, avrebbe portato all’emancipazione di un popolo oppresso.
A cinquant’anni di distanza, ciò che colpisce non è soltanto l’orrore compiuto dal regime di Pol Pot, ma anche l’imbarazzante reticenza – se non la deliberata complicità – di una parte della sinistra europea nel riconoscere e denunciare quanto stava accadendo. Titoli trionfalistici riempivano le pagine di importanti giornali progressisti. “La bandiera della resistenza sventola su Phnom Penh”, titolava Libération. “Sarà creata una nuova società”, annunciava Le Monde. In Svezia, il giornalista Sven-Oskar Ruhmen descrisse l’arrivo dei rivoluzionari come “lo spettacolo più bello mai visto”. L’entusiasmo ideologico, scollegato dalla realtà dei fatti, alimentava una narrazione romantica che presto si sarebbe rivelata tragicamente errata.
I Khmer rossi imposero al Paese una rivoluzione radicale, guidata da un’ideologia ossessiva e paranoica. Il loro progetto era quello di annullare la storia, distruggere la cultura e riportare la Cambogia a un’utopica “età dell’oro” agricola, cancellando ogni traccia di modernità. Circa due milioni di persone – su una popolazione di sette – furono uccise o morirono per fame, malattie, torture e lavori forzati. In Europa la reazione fu tiepida, ambigua, spesso ostile verso chi osava raccontare questa realtà.
Il caso più emblematico di questa cecità ideologica fu rappresentato da Caldwell, docente marxista alla School of Oriental di Londra, fervente sostenitore della rivoluzione cambogiana. Nel dicembre del 1978, Pol Pot lo invitò a visitare la Cambogia insieme ad altri due giornalisti. Caldwell rimase affascinato da ciò che vide, tanto da definirlo “la promessa di un futuro migliore per tutti”. Ma quella visita si concluse tragicamente: poche ore dopo un colloquio con Pol Pot, Caldwell fu trovato morto nella sua stanza d’albergo. La giornalista Elizabeth Becker, anch’essa presente, dichiarò che la sua morte fu causata “dalla follia del regime che ammirava apertamente”. L’episodio, assurdo e agghiacciante, rappresenta una perfetta metafora dell’illusione ideologica che accecò tanti intellettuali europei.
Ci vollero anni perché la stampa progressista iniziasse a riconsiderare le proprie posizioni. Solo nel 1978, con la rottura dei rapporti tra la Cina e i Khmer rossi e l’invasione vietnamita che culminò nella liberazione di Phnom Penh nel gennaio 1979, le testimonianze iniziarono a ricevere un’attenzione diversa. Ma ormai era troppo tardi: il genocidio si era già compiuto, e milioni di vite erano state spezzate. Il silenzio, il dubbio sistematico, la minimizzazione, avevano avuto un costo incalcolabile. Non si trattò soltanto di un errore di valutazione politica: fu un fallimento profondo dell’intelligenza europea. Un’incapacità – o un rifiuto – di leggere la realtà senza i filtri dell’ideologia. I Khmer rossi non furono una “deviazione” della rivoluzione, ma la sua degenerazione logica, l’incarnazione estrema di una violenza totalitaria che si giustificava in nome della purezza e del rinnovamento.
Raccontare quella tragedia significa anche denunciare il silenzio – complice, quando non compiaciuto – di chi avrebbe dovuto indignarsi e invece preferì voltarsi dall’altra parte. Troppo spesso, in nome della rivoluzione, si accettò l’orrore. Troppo spesso si è stati più fedeli a un’ideologia che alla realtà, più attenti a difendere uno schieramento che a tutelare la vita umana.
