Il pacifista “erasmiano” preferisce la pace più ingiusta alla guerra più giusta (Erasmo da Rotterdam, “Querela pacis”, 1517). Nell’intellighentia di sinistra italiana, è una figura in grande spolvero. Purtroppo, nell’inferno della storia anche la pace può essere più catastrofica di una guerra. In Cambogia la pace dei Khmer rossi provocò un genocidio. In realtà, la tragedia della condizione umana è che il suo destino dipende spesso da una logica opaca, dove si calcolano effetti probabili e mai certi. Molte guerre, da ultima quella contro l’Ucraina, sono state progettate come guerrelampo; poi si sono rivelate massacri interminabili. Ma se un popolo rinuncia alla possibilità di difendersi, non ha nemmeno spazio per la trattativa politica.

Guerra – anche solo minacciata – e diplomazia si sostengono sempre a vicenda. A meno che per diplomazia non si intenda costringere alla resa con buone maniere chi è aggredito. Churchill prometteva ai suoi compatrioti “sudore, lacrime e sangue”. Allora gli inglesi, nel 1939, furono folli a combattere il nazismo? L’eroica lotta dei britannici contro Hitler voleva difendere i valori della libertà e della democrazia. La vittoria valse tanti morti e feriti? Il “pacifista contabile” risponde di no. La sua verità da ragioniere della partita doppia conosce solo il dovere della capitolazione.

La scelta “impossibile” della guerra richiama alla memoria un film americano, “La scelta di Sophie” di Alan J. Pakula (1982). Sophie (Meryl Streep) è una deportata polacca con due figli, un bambino e una bambina. Un ufficiale delle SS le sottopone una drammatica alternativa: “Uno dei tuoi figli verrà ucciso: scegli tu quale. Se non scegli, entrambi verranno uccisi”. Messa alle strette, Sophie sacrifica uno dei due. In molte situazioni, chi ha il potere di decidere si trova di fronte a scelte “impossibili” come quella di Sophie.

Il pacifista “neneista” (oggi “né con la Russia né con il riarmo dell’Europa“, ieri “né con lo Stato né con le Br”), all’opposto, guarda da spettatore. E altezzoso spettatore menefreghista vuole restare, lavandosene le mani. La sua pietas per i massacri a Gaza e nel Donbass non è categorica, kantiana, ma solo ipotetica, cioè condizionata dal tifo contro l’Occidente. È dettata non solo da ragioni morali, ma “estetiche”. Come il don Giovanni di Kierkegaard, contempla il mondo con le mani in tasca.

Peraltro, essere contro una guerra è un modo sicuro e a buon mercato di schierarsi dalla parte giusta. Ed essere contro il piano von der Leyen è una vera cuccagna: si blandisce il portafoglio dell’opinione pubblica e anche il proprio (dato che i cannoni costano più del burro, va da sé). Schlein e Landini (non Conte) appoggiano i più deboli, ma quando è ormai troppo tardi per loro. Ricordano il protagonista del film di François Truffaut, “La chambre verte” (1978): egli riusciva ad amare le persone solo quando erano morte. Bisognava esser morti per meritare il suo amore. Un po’ come la sinistra italiana: ama solo chi è inerme o moribondo.