La luce che manca
Cisgiordania indipendente in risposta al terrorismo genocida di Hamas, Gaza gestita da Israele

Johan Galtung si era sempre più allontanato dal ruolo di peace researcher, inteso come chi si sforza di ‘far finire le guerre’, per abbracciare l’impegno più complicato di risolvere i conflitti. Chi come me ha avuto la fortuna di essere suo allievo ha recepito tale insegnamento. Tengo da decenni un corso di Conflict resolution and peace building a Scienze internazionali e diplomatiche della università di Trieste (sede di Gorizia). Posso fare un esempio proprio in relazione al recente accordo tra Israele e Hamas che dovrebbe portare ad una tregua, e allo scambio tra la liberazione degli ostaggi e dei prigionieri. Il conflitto che ormai dura da circa cento anni tra le due ‘nazioni’ continuerà anche dopo tale episodio. Spesso le guerre finiscono, ma i conflitti restano irrisolti. È un grave errore confondere i concetti di conflitto e guerra; la guerra è solo una delle tante manifestazioni del conflitto.
Tale conflitto sembra impossibile da risolvere soprattutto a causa di Hamas, che mantiene l’obiettivo genocida di distruggere il popolo di Israele. La guerra dei sei giorni del 1967 arrivò dopo l’emanazione dello statuto di Fatah nel 1964, che auspicava tale esito del conflitto. Negli anni 2000, Hamas era entrato in conflitto con Fatah e Olp, perché entrambi avevano abbandonato tale obiettivo manicheo. I Palestinesi si sono poi divisi i territori; Gaza è stata controllata da Hamas, e la Cisgiordania da Fatah. Ma l’Olp ha perso legittimità perché i negoziati con Israele non hanno prodotto risultati, dopo il fallimento dell’accordo di Camp David II promosso da Clinton nel 2000.Ucraina e Israele sono due democrazie illiberali che tutelano i diritti delle minoranze (russe e palestinesi) solo con le ‘briciole’: l’autonomia amministrativa di Minsk e di Oslo. Il 7 ottobre 2023 Hamas ha scatenato il terrorismo brutale contro Israele, che come sempre ha attuato una devastante rappresaglia; Hamas è stato indebolito, ma si riorganizzerà e colpirà di nuovo.
Nel mondo ci sono un centinaio di conflitti armati tra nazioni diverse: alcune (come Israele) sono al governo, altre (come i Palestinesi) sono minoranze che chiedono la secessione. Non succede quasi mai che i gruppi nazionali che controllano uno stato danno l’indipendenza alle minoranze: né in Israele, né in Ucraina, né con i Curdi, né con i Tamil, né con i Saraui, né con i Ceceni, né con i Baschi o i Catalani in Spagna, né con l’Ulster in Gran Bretagna. C’è stato lo smembramento di Urss e Jugoslavia, che era prevedibile perché il comunismo aveva congelato due federazioni artificiali, ma poi i conflitti nazionali si sono ripresentati in quasi tutti i nuovi stati dell’est Europa. In Africa solo due paesi sono diventati indipendenti dopo l’89: Eritrea e sud Sudan, perché tali entità politiche erano state istituite dagli imperi europei.
L’unica altra eccezione è stata Timor est, che è diventata indipendente nel 1999 per alcune congiunture irripetibili. Gli Israeliani potrebbero obiettare a chi chiede l’indipendenza per i Palestinesi: ma perché noi sì, e tutto il resto del mondo no? In occidente l’ideologia politically correct è diventata la cultura prevalente. Se lo stato è percepito come un attore forte (Israele), e le minoranze come deboli (i Palestinesi), la sinistra invoca la soluzione ‘due popoli, due stati’. Se lo stato è percepito come un’entità debole (l’Ucraina) e le minoranze come una forte (i Russi), i paladini del politically correct richiedono ‘due popoli, uno stato’: quello di Kiev.
Allora perché Israele dovrebbe dare l’indipendenza ai Palestinesi? Sembra un paradosso, ma lo deve fare perché in nessun altro conflitto al mondo una parte (Hamas) dice che vuole distruggere l’altra (Israele). È proprio la valenza genocida del terrorismo di Hamas che dovrebbe spingere Israele a favorire la secessione dei Palestinesi, per evitare che così tanti cittadini di Israele siano uccisi o costantemente minacciati. Ma quale forma di indipendenza è auspicabile? Se Israele persegue solo il dominio post-1967, sempre più palestinesi aderiranno ad Hamas e sempre meno seguiranno l’Olp. Israele dovrà comportarsi da democrazia liberale, premiando i Palestinesi moderati (Fatah) e punendo quelli radicali (Hamas): ma con la politica e non con le armi. La legittimità dell’Olp potrà essere rafforzata solo se sarà dato loro un argomento: l’indipendenza di tutta la Cisgiordania (e non di Gaza).
Questa è ‘la luce che manca’, come nel romanzo della scrittrice georgiana Nino Haratischwili. Gaza dovrebbe rimanere sotto il dominio di Israele, al massimo con la concessione dell’autonomia amministrativa di Oslo, tutelata dalla legittima costruzione di un muro a difesa di Israele. Ulteriori scambi potrebbero essere realizzati fra terre della West Bank ad alto insediamento ebraico e zone poco popolate di Israele pre-1967 da attribuire alla Palestina. E sarebbe utile anche qualche regalo di territori ai palestinesi da parte dei paesi arabi vicini.
Solo la differenziazione fra sanzioni negative (a Gaza controllata da Hamas) e positive (alla Cisgiordania gestita dall’Olp) può favorire un processo di apprendimento virtuoso nella regione; se si formerà uno stato palestinese, gli Hezbollah si modereranno di conseguenza. Se Israele continuerà ad applicare solo sanzioni negative sia ai ‘cattivi’ (Hamas) che ai ‘buoni’ (Fatah), la mobilitazione dei promotori di un secondo genocidio degli ebrei avrà ancora successo.
La cosmologia aristotelica della conoscenza del ‘tertium non datur’ ha sempre spinto occidentali, ebrei e islamici a un ottuso manicheismo (indipendenza di Cisgiordania ‘e’ Gaza, oppure solo autonomia amministrativa). In sintesi, anche Camp David II era stato mal ideato, perché dava l’indipendenza pure a Gaza. Hamas dovrà essere escluso dalla competizione nelle prime elezioni libere in Cisgiordania, finché avrà il suo obiettivo genocida; anche i Khmer rossi furono banditi in Cambogia nel 1993. Nelle costituzioni democratiche liberali, gli attori intolleranti (i partiti neo-fascisti e neo-comunisti) non possono partecipare alle elezioni. Così gli elettori israeliani potranno premiare i partiti a favore della pace. E nei negoziati andrà applicata una conventio ad excludendum contro Hamas. La rinuncia alla clausola genocida della distruzione di Israele, il ripudio del terrorismo e la consegna delle armi al nuovo governo che si formerà dopo le elezioni porterà alla formazione di uno stato Palestinese: per ora, solo in Cisgiordania. Se poi Hamas farà tali concessioni, anche Gaza potrà diventare indipendente.
Gli sviluppi recenti del conflitto stanno andando nella direzione opposta; se si formerà (grazie alla mediazione della Cina) un governo di unità nazionale a Gaza (e in Cisgiordania) tra Hamas e Fatah, la possibilità di risolvere il conflitto sarà indebolita. Forse l’obiettivo della offensiva di Hamas del 2023 era proprio spingere l’Olp verso posizioni radicali. Che è ciò che Israele dovrebbe impedire: attraverso una soluzione politica, perché le tregue militari provvisorie non risolvono il conflitto.
Lo snodo cruciale per raggiungere tale obiettivo è come spingere Israele a mutare diplomazia. Gli Usa (tranne Clinton nella fase dell’ordine mondiale) hanno sempre sostenuto Israele a 360 gradi, dando la priorità ai valori e dimenticando gli interessi. La diplomazia conservatrice ‘prudente’ (seppur assertiva nelle dichiarazioni) di Trump potrà contenere forse la violenza, ma non saprà risolvere il conflitto. Anche i governi europei dovrebbero abbandonare il politically correct post-moderno e filo-palestinese ‘a parole’. E la sinistra europea dovrebbe tornare al pacifismo moderno ‘nei fatti’ degli anni ’80 tipico di studiosi come Galtung. Primo, va abbandonata la cosmologia del tertium non datur; secondo la sinistra dovrebbe rompere con i palestinesi radicali e sostenere solo quelli moderati.
La gestione dei coloni ebrei che vivono nella West Bank rappresenta forse un falso problema. L’accordo di pace permetterà che cittadini israeliani possano recarsi in Cisgiordania per lavorare o comprare casa, così come cittadini palestinesi potranno andare in Israele per trovare occupazione o abitarci; entrambi avranno diritto alla (doppia) cittadinanza e al voto nello stato in cui sceglieranno di vivere. Le polizie dei due paesi dovranno formare corpi di sicurezza comuni, per prevenire e punire gli attacchi terroristi. Se Israele avrà paura di dare subito l’indipendenza alla West Bank, si potrebbe prevedere un periodo transitorio di circa cinque anni, con una confederazione ora, che porterà a un referendum futuro per l’indipendenza (come in sud Sudan). In questi anni si potranno contenere gli eventuali attentati terroristi contro i coloni israeliani. Anche i cittadini ebrei avevano costituito un gruppo terrorista (l’Irgun), prima della indipendenza di Israele. I cittadini israeliani potranno promuovere la pace, solo se si pongono le premesse per una fase transitoria, in cui si possa sviluppare un processo di apprendimento virtuoso in tutto il Medio oriente per risolvere davvero il conflitto.
*Fabio Fossati, professore di Relazioni internazionali e Conflict resolution, Università di Trieste
© Riproduzione riservata