La forza di Trump sta nella debolezza della sua opposizione: un fenomeno che non riguarda solo gli Stati Uniti. Ne parla con il Riformista il professor Giovanni Orsina, storico e politologo, insegna Storia contemporanea alla Luiss dove dirige il Dipartimento di Scienze Politiche.

Partiamo da una considerazione di realtà: Trump fa e disfa come vuole alleanze politiche, militari e commerciali anche perché non ha più opposizione interna. Dopo due giorni da quello che ha definito Liberation Day non c’è stata una reazione forte, a Washington. I Democrats deboli conferiscono pieni poteri al tycoon. E questo vale in tutti i paesi…
«È un problema gigantesco, ça va sans dire. Vediamo gridare quando si attenterebbe al contropotere giudiziario, quando si minaccia il contropotere dei media, ma la verità è che in una democrazia, come ci insegna Karl Popper, il primo contropotere è quello di poter contare sempre su un’alternativa: si deve poter votare contro il governo in carica e sostituirlo con un altro governo, proposto dall’opposizione. Questo è l’elemento di base che caratterizza le democrazie. Poi, per carità, gli altri contropoteri sono fondamentali, ma il contropotere giudiziario e la libertà dei media, in definitiva, sono anche propedeutici alla possibilità che il potere politico abbia un ricambio».

Quando arriva un fenomeno politico dirompente, un game changer che miete così ampi consensi, si deve alla sua eccezionale caratura politica o il suo successo sta nel saper cogliere una tendenza di per se stessa forte?
«Questo mi pare sia il nodo centrale. Quando arriva uno come Trump che minaccia di sfasciare tutto e non suscita un’opposizione, forse è perché si è presentato al termine di un processo storico ormai maturo. L’antico regime che dovrebbe reagire è così debole da non riuscire a reagire. È la dimostrazione del fatto che la rivoluzione è ormai inevitabile perché il vecchio mondo è già morto. Trump insomma dichiara la fine del mondo precedente e ne incassa i dividendi».

Trump è dunque l’incarnazione dello Zeitgeist?
«Potrebbe ben esserlo. Non lo dico a cuor leggero né sono felice di dirlo, sia chiaro. Nel constatare la forza storica di Trump non ne sto dando una lettura positiva. È solo una constatazione, appunto».

A maggior ragione è inquietante che nessuno lo contrasti.
«Certo. Ma non dimentichiamo come siamo arrivati alla vittoria di Trump: i democratici gli avevano messo contro un presidente uscente che non era più in sé, se ne sono resi conto in ritardo e a quel punto hanno messo in campo una candidata dalla debolezza patologica. Una sconfitta già certificata, perché Harris aveva fallito come vicepresidente».

Oggi emerge la figura di Alexandra Ocasio Cortèz. Tutta dedicata a minoranze e gender fluid…
«Sì, certo, una figura ben nota, la punta di diamante di The Squad. È un bel dilemma. Nel mondo oggi spira con forza un vento di destra radicale. Si deve rispondere con una politica identitaria di sinistra-sinistra che opponga radicalismo a radicalismo, oppure si deve proporre una mediazione al centro, tentando di contendere parti di elettorato alla destra? Penso ad esempio alla danese Mette Frederiksen, o anche a Scholz in Germania, che sui migranti hanno adottato politiche di destra. Oggi è presto per dirlo, anche perché stiamo ancora capendo le nuove destre che roba siano».

Anche in Italia i Dem hanno un evidente problema di leadership. Conte porta in piazza una manifestazione con l’aiuto della tiktoker napoletana Rita De Crescenzo.
«Il problema, al di là della tiktoker, è che di fronte a una situazione di oggettiva difficoltà di Giorgia Meloni, perché i dazi colpiscono la constituency del centrodestra italiano, la sinistra non è in grado di inserirsi con una proposta alternativa credibile. Si aprono delle finestre ma la sinistra non riesce ad entrarci mai. E quando la destra va in difficoltà, tutti vedono che la sinistra non rappresenta un’alternativa. A oggi non avrebbe né i numeri né la cultura per garantire la tenuta del paese».

Perfino chi ha a cuore l’Europa oggi prende le distanze dalla piazza antieuropeista di Conte, dove va il dem Goffredo Bettini con una delegazione Pd.
«Lo dico con una battuta, gli europeisti oggi devono sperare che Meloni tenga. Lo hanno capito bene anche in Europa, come dimostrano le interviste di Manfred Weber e Ursula von der Leyen della settimana scorsa. La retorica della manifestazione di Conte non porta da nessuna parte. Ma questo vale anche per il Pd: usare il federalismo europeo come strumento per dire di no al riarmo europeo, equivale a dire che nel nome dell’Europa che sogni e che non puoi avere, rinunci all’Europa che potresti avere. Una posizione cripto-antieuropeista. E che non indica soluzioni, alternative, vie d’uscita. Il pacifismo a tutti i costi, in questo momento, è un’uscita dalla storia. Per carità, si può uscire dalla storia, ma si paga un prezzo molto alto».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.