Alberto Angela incanta col suo “Stanotte a Napoli”, ma noi siamo incapaci di difenderla

C’era da aspettarselo: ora ci sono i No-Angela e i No-Sorrentino, come i No-Vax e i No-GreenPass, contestati a loro volta da loro aficionados pugnaci. Ottimo: “Oportet ut scandala eveniant”, ossia va bene tutto quello che fa discutere, perché ha colpito il primo bersaglio, ossia quello di non passare inosservato. Poi possiamo incominciare a discutere. Lamentare le scelte estetiche di un documentarista televisivo e di un regista cinematografico perché non riproducono in modo fedele una realtà sociale urbana è alquanto ozioso, una volta che si sia appurato che nessuno dei due si proponeva un reportage sociologico.

Bisognerebbe piuttosto guardare alla funzione che ciascuno perseguiva e allora viene fatto di dire che, sotto l’etichetta comune dell’intrattenimento – l’uno mirava a un’illustrazione a uso turistico delle bellezze napoletane, l’altro ha trasfigurato una drammatica vicenda personale in una costruzione artistica ad alto tasso di simbolizzazione e di resa poetica. In aggiunta, entrambi mirano al consenso del rispettivo pubblico, che nel primo caso si traduce in un elevato share di telespettatori e nel secondo in un successo sì di critica, ma più ancora di botteghino e in un buon piazzamento nella corsa al premio Oscar per il migliore film straniero della stagione. Non rileva sapere come la pensi in merito chi scrive, bisogna capire piuttosto se le operazioni tentate abbiano ripagato le rispettive ambizioni: è questa la pietra di paragone da tenere ferma e qui il risultato positivo vi è stato per entrambe.

La prima aveva un intento promozionale, quasi che fosse stata finanziata dall’assessorato al turismo e spettacolo e onestamente si è premesso che mostrava le luci e non le ombre, pur esistenti. Se incuriosisce chi Napoli non la conosce e spinge a visitarla, ma contemporaneamente fa vergognare noi che ci viviamo e che la sporchiamo, facendo compromessi con la sua parte oscura, o quantomeno voltandoci dall’altra parte, lo scopo è stato pienamente raggiunto. Ci tocca un mea culpa su due piani: dimenticare l’onere morale che ci deriva dal custodire queste bellezze (anche Fabietto Schisa lascia la città, lui pure Ferito a morte, benché la squadra con Maradona abbia conquistato lo scudetto e non sono luminarie pacchiane e pupazzi strani a onorarle: la Camera di Commercio avrebbe fatto meglio a finanziare qualche restauro) e tenerci, magari rieleggendoli più volte, amministratori incapaci di ricondurre la città a una normalità europea nella vita quotidiana. Una televisione educativa, anche se a tratti retorica, è comunque migliore dei talk show in cui la gente dice sciocchezze e litiga per fare alzare l’audience.