Altro che coronavirus, c’è una crisi di civiltà: responsabili politici e giornali

Un’epidemia è un’epidemia, si potrebbe dire classicamente. Ma la diffusione del coronavirus sancisce anche qualcos’altro oltre a quello che manifesta direttamente, ovvero l’esistenza di una crisi di civiltà e la totale sparizione degli intellettuali.

L’epidemia e la crisi di civiltà sono sorelle. C’è un’evidenza che si manifesta anche nelle citazioni che si sentono in questi giorni come la peste raccontata dal Manzoni ne I promessi sposi e nella Storia della colonna infame. La peste, del tutto imparagonabile al virus dei nostri giorni, ha in comune con ciò che stiamo vivendo la manifestazione di una paura che persino con la peste era largamente sovrastimata, tanto che il Manzoni denuncia la caccia all’untore. La prima ragione per la quale viene denunciata risiede nel principio della carità cristiana.

Questa citazione mette in luce una necessità, a cui tuttavia non si può dare seguito, perché la carità cristiana, così rilevante in Manzoni, è uno dei tanti elementi che vengono messi in crisi nella civiltà dei nostri giorni. Manca cioè l’anticorpo a cui, nella sua grande narrazione, il Manzoni faceva riferimento. Tuttavia, la cosa è ugualmente indicativa, perché c’è un bisogno di far fronte al fenomeno, secondo le difese dell’umanità e della razionalità ma la crisi di civiltà le ha consumate.

Le vicende dei nostri giorni – che sono francamente clamorose – ci inducono e ci obbligano a un’indagine sia sulla crisi della politica, che sulla crisi più profonda, quasi di natura antropologica del vissuto dei nostri giorni. La crisi della politica è molto evidente. Assistiamo a un fenomeno che sarebbe potuto essere fronteggiato con le armi ordinarie del contenimento, dell’informazione, dell’introduzione degli elementi necessari contro un male oggettivo, ma assolutamente circoscrivibile. Invece tutto questo è diventata una patologia, perché si è depositato in questa così diffusa e sistemica crisi. Sul banco degli accusati, prima ancora della deficitaria politica, va il sistema delle comunicazioni di massa per il suo connotato strutturale, di fondo, di essere una trincea osmotica tra il popolo e la produzione di informazioni e di cultura.

L’epidemia la mette proprio sulla frontiera ed è qui che rivela tutto il suo carattere deficitario. In questa patologia psicologica di una risposta del tutto incomprensibile razionalmente e fondata tutta sulla paura, la comunicazione di massa ha avuto il ruolo di regina. Bastava accendere nei giorni scorsi una televisione di qualunque ordine e grado per avere obbligatoriamente un sovrappiù di informazione drammatizzante sul virus, pervasiva, drammaticamente pervasiva. Persino le frasi che sono diventate di rito, “Bisogna preoccuparsi senza allarmismi”, erano il viatico di ogni allarmismo.

Questo ruolo non credo sia mai stato svolto in maniera così esagitata, scomposta e così sistematica, e mette in luce che ormai abbiamo un sistema di informazione (stampa, tv e radio) malato nella sua radice, in grado soltanto di amplificare quello che ritiene sia esistente, privo di qualunque capacità critica. Non si è mai visto un sistema di comunicazione così privo di pensiero critico come quello che abbiamo visto all’opera in questa stagione. Spariti gli intellettuali, il pensiero critico è stato completamente bandito.

Per quanto riguarda la crisi della politica, è facilmente rintracciabile una mancanza di autorevolezza, delle istituzioni di qualsiasi ordine e grado: dal governo alle regioni sono stati semplicemente una carta assorbente. A differenza delle parole dei sistemi di comunicazione che sono state pesanti, le parole della politica sono state leggere, prive di qualunque influenza. È vero che la politica ha perso legittimità da diverso tempo, ma neppure in un frangente come questo, in cui non sono in campo direttamente le categorie classiche della politica, ha dimostrato la sua impotenza, la sua totale estraneità alla vita comune delle persone.

Possiamo poi individuare un elemento di crisi nel sistema istituzionale italiano, che ha mostrato la sua incongruenza. Il rapporto tra il potere centrale e potere delle regioni si è rivelato non disciplinato da un comune sentire e da una comune cultura. Messa in mora l’autorevolezza dei comuni – la cui autonomia sarebbe stata fruttuosa e che ha a che fare con le radici della grande tradizione italiana – il bilanciamento tra potere centrale e regioni è tra due ordinamenti burocratici, entrambi privi della linfa vitale del popolo.

A proposito della crisi antropologica, c’è un’immagine molto pertinente che descrive lo stato delle cose esistenti nella formula usata da Giuseppe De Rita, ripresa da Vincenzo Gioberti, ovvero l’immagine del “popolo di sabbia”. Il popolo di sabbia è un ossimoro: “popolo” fa pensare che si tratti di un processo unitario; la “sabbia” fa pensare ai granelli che vivono l’uno accanto all’altro in una assoluta solitudine. Quest’ossimoro è rappresentativo della realtà che viviamo: continuiamo a considerarci popolo, ma siamo solo granelli di sabbia. Questa antropologia della solitudine non poteva che portare al formarsi del senso comune di questi ultimi nostri, drammatici anni: la vittoria di un populismo reazionario, che ha fatto della paura la sua bandiera. In primis, la paura nei confronti dell’altro.

L’altro non è più considerato una risorsa, come nelle culture del movimento operario. Il populismo reazionario ha proposto invece il rovesciamento di questo paradigma, individuando nell’altro una minaccia e un pericolo, tanto più grande, quanto l’altro è diverso. L’immigrato, il nero, l’ebreo e il malato, invece che elementi che richiedono solidarietà, inducono alla paura. La paura è stata infatti la cifra con cui si è affrontata questa crisi, è il prodotto di una mutazione della cultura del Paese a cui corrisponde la desertificazione della politica e un ruolo inquinante delle comunicazioni di massa.

Concludendo con il pessimismo della ragione, che credo sia utile per il Paese, questa paura alimentata dal potere costituito – per usare il mio linguaggio, alimentata dal Capitale, come cultura oppositiva rispetto alle culture della eguaglianza e della solidarietà – insomma, questa cultura della paura usata dal sistema contro qualsiasi ipotesi di trasformazione e di cambiamento entra in collisione imprevedibilmente con lo stesso potere costituito nella sua dimensione economica.

La paura ha alimentato le chiusure che, sopportate in un primissimo tempo per lisciare il pelo alla bestia, diventano un ostacolo alla ripresa dell’attività produttiva e del funzionamento dell’economia. I grandi poteri economici si sono dovuti mobilitare contro la paura e hanno dovuto chiedere un cambiamento di rotta.

E così da parte della principale struttura servile di questo potere, ovvero le comunicazioni di massa, comincia ad avvertirsi l’esigenza di mettere da parte l’allarmismo e avvicinarsi razionalmente al problema da affrontare.