Andrée Ruth Shammah: “A Milano mi guardo attorno con cautela. Pensavo volessero strangolarmi perché sono ebrea”

ANDREE RUTH SHAMMAH REGISTA ORNELLA VANONI CANTANTE

Di Mario Alberto Marchi

Quando si parla di Milano, si evoca inevitabilmente una città in perpetuo movimento, un laboratorio urbano dove il passato dialoga con l’innovazione, dove la tradizione si confronta con la sperimentazione. È questa tensione creativa che rende Milano unica: una metropoli che non si accontenta di essere, ma che costantemente si interroga su cosa potrà diventare. Per comprendere davvero l’anima di questa città e immaginarne il futuro, abbiamo scelto di dare voce a chi Milano la vive, la trasforma e la interpreta ogni giorno. Questa serie di interviste estive sarà un viaggio attraverso gli sguardi di protagonisti della cultura, dell’economia, del mondo accademico e dell’impegno sociale: testimoni privilegiati, protagonisti impegnati che hanno fatto della città il loro campo d’azione e di riflessione. Iniziamo questo percorso con Andrée Ruth Shammah, figura imprescindibile del teatro italiano. Ebrea, nata a Milano nel 1948 da una famiglia sefardita fuggita da Aleppo, ha trasformato il Teatro Franco Parenti in un autentico crocevia culturale della città. Allieva di Giorgio Strehler e Paolo Grassi al Piccolo Teatro, nel 1972 ha cofondato con Franco Parenti, Giovanni Testori e altri intellettuali il Salone Pier Lombardo, divenuto poi Teatro Franco Parenti. Dal 1989 ne è l’anima e la guida, con una visione del teatro come luogo di incontro, confronto e trasformazione sociale. Insignita in Francia della Légion d’honneur nel 2019, Shammah incarna quella Milano che sa innovare rispettando le proprie radici, che accoglie e trasforma, che non si limita a esistere ma aspira costantemente a immaginare nuovi orizzonti.
Attraverso le voci che raccoglieremo in queste pagine emergerà una Milano plurale e complessa, fatta di eccellenze e contraddizioni, di slanci visionari e sfide quotidiane. Una città che, proprio come un palcoscenico teatrale, sa essere spazio di rappresentazione e laboratorio di futuro.

L’intervista a Andrée Ruth Shammah

Di Maurizio Giannattasio

«In questo momento non riesco a parlare di Milano senza partire da un fatto culturale profondo che la riguarda da vicino: il silenzio davanti ai segnali di intolleranza, non disponibilità e non accoglienza come quella serie di cartelli con su scritto gli “israeliani non sono benvenuti”». Fa sempre più fatica Andrée Ruth Shammah, regista e anima del Franco Parenti. Milanese di nascita, ebrea, studi in una scuola francese cattolica, non riconosce più la sua città.

Che sta succedendo?
«Non è solo questione di cronaca o di politica. Mi preoccupa la semplificazione del dibattito pubblico, il modo in cui tutto sembra ridursi a uno schieramento: “pro o contro”, come se si trattasse di una partita, con vincitori e vinti. Non è così. C’è tanta confusione, ci cono facili associazioni tra popolo, governo e religione ebraica, che riducono tre entità separate ad un’unica cosa, un unico pensiero e non è così. Mi preoccupa che si accettino slogan estremi – come “dal fiume al mare”, che implica l’annientamento dello Stato di Israele – mi preoccupa che diventino normalità nello spazio pubblico… Non si può accettare che Milano ospiti manifestazioni dove si invoca la distruzione di un intero Paese. Né da una parte né dall’altra. Mi sembra che qualcosa si sia incrinato nella nostra capacità di distinguere, di comprendere, di accogliere davvero…».

Cosa è cambiato?
«Milano è una città complessa, ma è sempre stata capace di superare grandi ostacoli, di andare in profondità nelle questioni. Eppure, oggi sembra non riconoscere più certi segnali. Io stessa, che sono nata qui, che mi sento profondamente milanese, che vivo e lavoro da decenni nel cuore della cultura cittadina, mi sorprendo a cambiare le mie abitudini, non sono più a mio agio a parcheggiare dove ho sempre fatto, perché dovrei fare un pezzo da sola dal parcheggio a casa, e così ho iniziato a parcheggiare sotto al portone. Mi guardo attorno con una cautela nuova, spiacevole».

Perché? Da dove questa paura?
«Un po’ di tempo fa mi è successo di essere stata derubata (da un uomo presumibilmente di origini arabe) di una collana. Camminavo per strada e mi ha messo le mani al collo, in quel momento io non credevo volesse derubarmi, ma strangolarmi. Questo pensiero mi ha spaventato più dell’atto in sé, del gesto in sé. Questo sentirmi in pericolo, perché? Perché sono ebrea? È questa la domanda che mi ferisce…».

Sta crescendo l’antisemitismo in città?
«Io, personalmente, porto nel cuore una storia familiare che mi coinvolge profondamente. Ma ho sempre cercato di riflettere, di ascoltare. Ho provato a capire le ragioni di Israele, senza per questo negare quelle del popolo palestinese. La tolleranza non può essere a corrente alternata. E Milano non può dirsi multiculturale e aperta se non ha il coraggio di difendere pubblicamente la memoria, la sicurezza e la dignità tutte le comunità che la abitano. Anche quando è scomodo. Vorrei esporre, davanti al teatro, una bandiera palestinese con scritto: “Free Palestinians from Hamas”. Perché credo davvero che l’unica salvezza per il popolo palestinese sia restituire gli ostaggi e liberarsi da chi lo opprime, anche dall’interno. Quella bandiera che oggi è troppo spesso strumentalizzata».

Qual è l’antidoto all’odio e alla paura?
«Durante la mia vita ho visto Milano trasformarsi molte volte. Ho conosciuto persone che – come scriveva Saint-Exupéry – hanno visto cattedrali dove sembravano esserci solo mucchi di rocce. Io stessa ho perseguito e realizzato avventure che potevano sembrare folli e che hanno cambiato il volto della città come, ad esempio, la riapertura dei Bagni Misteriosi. La cultura ha sempre avuto un ruolo nel ridefinire l’identità urbana della città: non come ornamento, ma come infrastruttura sociale ed emotiva. Cuce le differenze, crea senso di appartenenza, permette di immaginare modelli di convivenza più inclusivi e sostenibili. L’arte ci insegna a immaginare qualcosa di diverso, ad intravedere con un po’ di fantasia, un’opportunità di crescita laddove sembra esserci solo abbandono e desolazione. Non si tratta solo dell’estetica degli spazi, ma più in generale dell’abitabilità dei quartieri, si tratta di immaginare (soprattutto in quei contesti dove c’è una totale assenza di centri culturali e di socialità) un “piano regolatore dell’anima”, e a partire da lì progettare interventi specifici sul territorio».

Cosa serve alla città?
«Servono nuove “cattedrali” – non quelle fatte di pietra, ma di idee, visioni, esperienze condivise. Servono sognatori; artisti, cittadini capaci di vedere oltre il visibile. Per rendere la città un laboratorio di futuro è necessario non smettere di guardare ai “mucchi di roccia” come potenziali capolavori».

Milano è sempre più una città per ricchi. Con una classe media che fatica ad arrivare a fine mese e tante persone espulse dalla città per il caro vita. Dove ha sbagliato la politica?
«Milano è sempre stata definita – a buon diritto – una “città che accoglie”. Eppure, oggi sta diventando una città che spinge fuori chi vorrebbe viverla per davvero. Gli affitti si impennano, gli spazi si privatizzano e una certa idea di comunità cede il passo a una “popolazione fluttuante” che consuma la città ma non la abita. Il caso di High-Tech, costretto a lasciare uno spazio storico per far posto a nuove speculazioni, è emblematico: racconta una Milano che rischia di diventare bellissima e vuota, perfetta da fotografare ma difficile da vivere. Scompaiono le botteghe, fioriscono locali destinati alla ristorazione, le grandi compagnie internazionali lentamente conquistano sempre più spazio a discapito delle piccole realtà locali. La città si trasforma, e rischia di diventare sempre più omogenea e priva di quella varietà che un tempo la rendeva viva e autentica. Senza diversità sociale, senza tempo e luoghi per costruire, anche la creatività si spegne o si trasferisce altrove».

La sua ricetta?
«Per restare viva, Milano deve tornare a investire nei suoi margini, nei suoi vuoti, nella cultura diffusa. Non si tratta solo di evitare la fuga dei giovani, ma di immaginare con loro una città che non sia solo performante, ma anche fertile, aperta, generosa. Questo già avviene, penso a realtà anche piccole ma significative come, il Teatro della contraddizione in via privata della Braida 6, o Factory in via Watt, Campo Teatrale in via Cambiasi,10, dove pezzi differenti della cittadinanza hanno uno spazio per vivere, ma queste realtà rischiano di essere schiacciate e costrette a chiudere come High Tech».

Anche il Parenti ha vissuto momenti di difficoltà…
«Quando nel 2004 il Teatro Franco Parenti fu costretto a trasferirsi temporaneamente in via Cadolini, in un’area allora degradata e deserta, molti abbonati non volevano spingersi “là fuori”. Non è stato facile, addirittura ci bucavano le gomme della macchina. Ma nell’inverno di quell’anno fu inaugurata la “sede temporanea”; un vasto complesso industriale, un grande capannone, affiancato da numerosi altri capannoni in cortili dove manovravano i camion. C’erano segnali confortanti sparsi qua e là: l’atelier di un artista del vetro, uno studio per casting, una discoteca da battaglia, un bar tavola calda, restava però lo squallore di una periferia anni cinquanta raccontata da Testori, ma nel quartiere c’era anche tutta la tensione di un popolo ansioso di vivere e mettersi in movimento, c’era il coraggio di andare al di là della propria comfort zone. E così allestimmo gli spazi del “nuovo Teatro”. Non fu facile ricreare in quei capannoni l’atmosfera e lo spirito del Franco Parenti. Per impreziosire l’esterno fu sfruttata l’unica possibilità offerta: il grande muro perimetrale fu dipinto d’azzurro e arricchito con delle lucine e un’elegante insegna che si faceva guardare da lontano. Tutt’intorno a terra un cordolo di ghiaia bianchissima staccava le pareti dal marciapiedi sconnesso. La zona ha iniziato così a popolarsi di persone, del quartiere e non, che partecipavano attivamente alla vita del teatro.
In pochi anni il complesso industriale si trasformato in un vero e proprio distretto culturale».

Il potere taumaturgico della cultura? Sono in pochi a crederci.
«La cultura ha acceso un processo spontaneo di trasformazione urbana, sociale ed economica perché un teatro, un cinema, una biblioteca o una piazza restituita alla comunità non sono solo luoghi di passaggio. Sono presìdi di cittadinanza, luoghi che attivano relazioni, desideri, servizi. Che trasformano i margini in centri di senso. Anche per questo abbiamo, ad esempio, deciso di sostenere la riapertura del Teatro della Quattordicesima realizzando lì un piccolo festival nel tentativo di accorciare quella sempre più evidente divaricazione tra centro e periferie. Bisogna imparare a guardare sotto la superficie, a cercare – come rabdomanti – le pepite d’oro nascoste nel tessuto profondo della città. Perché la cultura non è solo l’elenco degli eventi “imperdibili” a cui correre – alla Triennale, al PAC – ma è anche, e soprattutto, ciò che nasce dal basso, dalla fatica, dal dubbio, dalla riflessione. Di certo a Milano non manca l’offerta teatrale: anzi, è straordinaria. Tra il Piccolo, il Parenti e le altre realtà, la proposta è ricchissima, forse persino fin troppo, ma i teatri sono pieni e questo dimostra quanto ci sia bisogno di cultura. La cosa più importante è non fermarsi lì. Bisogna guardare al tessuto più nascosto, per capire se in questa città si crea qualcosa di vivo o si consuma semplicemente ciò che è stato impacchettato per essere venduto».

Lei su cosa punta?
«Qui entra di nuovo in gioco una questione cruciale: il denaro il denaro che corrompe, che manipola, che decide cosa va in scena e cosa viene taciuto. La propaganda si sostituisce al pensiero, i simboli vengono svuotati. Io, però, continuo ad avere speranza. Milano ha attraversato crisi, crolli, cadute, e ogni volta ha trovato il modo di risollevarsi. Questo è un momento difficile, anche per la cultura, ma quella autentica, nasce dal riconoscimento delle ferite, dall’indignazione che si trasforma in espressione artistica. In questo contesto, mi chiedo: come possiamo parlare serenamente, con onestà intellettuale, di diritti e di libertà?».

A cosa si riferisce?
«Partecipiamo al Pride per affermare i diritti LGBTQIA+, ma dimentichiamo che in molti paesi l’omosessualità è punita con la morte. In Iran si impiccano le persone diverse, si appendono a testa in giù, pubblicamente. Eppure, non vedo manifestazioni che denuncino con la stessa forza questi orrori. Perché non manifestiamo per la Siria, dove ci sono stati milioni di morti? Per il Sudan, per la Birmania – la mia amata Birmania – dove si continua a morire nell’indifferenza generale? Perché non ci scandalizziamo pubblicamente per il fenomeno atroce delle spose bambine? Perché non denunciamo quelle leggi che autorizzano la “palpazione” di bambine tra i 9 e i 12 anni, e dopo i 12 anni anche la penetrazione. Questo perché Maometto, aveva una sposa bambina. Ho visto video di bambine che piangevano, trascinate a forza da uomini che le avevano semplicemente comprate. E allora mi domando: perché non scendiamo in piazza per questo? Perché non diamo spazio anche a queste tragedie?».

Ha una risposta?
«Temi come questi e come quello dell’intolleranza di cui parlavo all’inizio, richiedono la voce di figure autorevoli, di maestri. Persone capaci di stimolare il pensiero collettivo: scrittori, architetti, poeti, intellettuali – come lo sono stati i miei maestri – persone capaci di nutrire l’anima della città con parole forti e necessarie. Io sono una teatrante per cui devo tornare lì, a quello che conosco, al mio mondo e nel mio mondo- in Teatro – non c’è neutralità, ma pluralità: c’è un terreno condiviso in cui le differenze non vengono negate, ma attraversate, un luogo che mette in relazione chi guarda e chi agisce, chi racconta e chi si riconosce. Sul palcoscenico, la fragilità diventa forza, la differenza diventa linguaggio, il limite diventa possibilità. Lo vedo ogni giorno. Il Teatro non fa assistenza: fa cittadinanza. Non “include” qualcuno, ma lo riconosce nella sua singolarità, e da lì costruisce un insieme. Forse dovremmo imparare a vivere le città come viviamo il teatro».