Gennaio 1977. L’anno dopo l’ultimo scudetto granata. A poco più di 7 anni, mio padre Gian Carlo mi porta per la prima volta nella mia vita allo Stadio, il Comunale. Gioca il Toro. Torino-Foggia finisce 1-0. Triangolo fuori area Pecci-Graziani-Pecci, bomba di sinistro, palo interno alla destra del portiere, la palla attraversa lo specchio della porta, Zaccarelli piomba come un falco sul secondo palo e, in scivolata, insacca dal basso verso l’alto. Poi, avvolto nella mia sciarpa granata, non capisco più nulla. Non ricordo nemmeno un altro istante di quella partita, ma è come se vedessi ancora adesso, frame by frame, questa azione. Anche ora, ad occhi chiusi, è lì. Indelebile.

È uno dei più bei regali di sempre di mio papà, che, tra i tanti valori sani, ha saputo trasmettermi (anche) la fede e la passione granata, la stessa di mio nonno paterno, Pietro. E che io ho trasmesso a mio figlio Andrea, indomito tifoso del Toro nonostante abbia vissuto sempre a Roma, tranne il primo anno a Milano. Mio nonno materno, Alberto, era invece gobbo in modo viscerale, ma non solo portava me e mio cugino da ragazzini a vedere il Toro quando giocava le Coppe, mi raccontava anche per ore del Grande Torino, che lui andava a vedere al Filadelfia perché, così diceva, era uno spettacolo meraviglioso e unico. La vita di noi tifosi è fatta di momenti. Di memorie che ci accompagneranno sempre. Per i tifosi granata, forse, questi ricordi sono un po’ più speciali. Quelli che vi ho raccontato sono alcuni dei miei momenti. Ciascuno di noi, tifosi del Toro, ne conserva nel cuore e nella mente moltissimi: purtroppo anche tragici.

Le lacrime per la tragedia di Superga, i 600mila in piazza Castello a Torino attoniti e sconvolti per il funerale degli Immortali, il pianto per la morte della farfalla granata, Gigi Meroni, investito incredibilmente da chi diventerà anni dopo Presidente del Torino, o per una delle retrocessioni in B. La rabbia per la finale Uefa – persa senza sconfitte – di Amsterdam, con i tre pali centrati e il rigore negato, con Mondonico che alza la sedia. Poi quelli positivi. La gioia per i gol dei nostri bomber: Pulici, Graziani, Ferrante, Bianchi, Belotti (pazzeschi i due gol in rovesciata contro il Sassuolo), fino a Duvan Zapata. L’esultanza per Davide Nicola che segna di testa al Delle Alpi il liberatorio 3-0 contro il Mantova nella finale promozione per la Serie A del giugno 2006, dopo il fallimento dell’anno precedente. Le giocate di classe di Claudio Sala, Leo Junior, Roberto Cravero, Beppe Dossena, Enzo Scifo, Rafa Martin Vazquez e Gigi Lentini. Capitan Valentino Mazzola e Giorgio Ferrini, indimenticabili.

I derby vinti (purtroppo una rarità negli ultimi 20 anni). Il 3-2 ai gobbi con tre gol in 2 minuti e 4 secondi (Dossena, Bonesso e Torrisi) partendo dallo 0-2. Oppure il 2-1 alla Juve del Toro di Ventura dell’aprile 2015, visto sul mio smartphone in viaggio da Capri a Napoli (non vi dico quante parolacce nei buchi di rete), fino a trovarmi a saltare da solo come un matto in stazione centrale a Napoli, con il volto rigato da una lacrima al fischio finale. Il San Mamés, con il Toro prima squadra italiana di sempre ad espugnare Bilbao in una coppa europea (3-2). La buca di Maspero nel derby del 3-3. La Coppa Italia, ultimo trofeo vinto, il 19 giugno 1993, all’Olimpico di Roma (io c’ero!), nonostante la sconfitta per 5-2 (due gol di Silenzi), dopo il 3-0 dell’andata. O, ancora, Capitan Mazzola che si rimbocca le maniche, il trombettista al Fila che suona la carica e il Grande Torino si scatena.

La prima partita con mio figlio. Questo è il Toro

La prima partita con mio figlio Andrea, e la prima trasferta con lui, o le tante altre vissute insieme, allo stadio o attaccati alla tv. Il Toro è questo: un mix potente di storia, identità, sacrificio, lealtà, coesione, coraggio e grinta. Questi principi non solo definiscono il club, ma risuonano profondamente nei cuori dei suoi tifosi. Non sono solo slogan, ma pilastri che hanno plasmato la cultura del club e il suo rapporto con i tifosi. L’apice di questi valori si è manifestato nel “Grande Torino” degli anni ‘40, una squadra leggendaria che dominò il campionato italiano, vincendo cinque scudetti consecutivi.

L’eredità del Grande Torino

Una formazione incredibile che portò ben 10 titolari in Nazionale, quando l’11 maggio 1947 Vittorio Pozzo schierò in campo 10 giocatori del Toro per l’amichevole vinta dall’Italia 3-2 contro l’Ungheria di Puskas. Quel gruppo non era solo un insieme di grandi calciatori, ma un simbolo di unione e resilienza per un’Italia che usciva dalla guerra. La loro tragica scomparsa nella tragedia di Superga del 4 maggio 1949 ha cementato per sempre la loro memoria, trasformandoli in un’icona di grandezza e sacrificio. L’eredità del Grande Torino si traduce oggi nel “Cuore granata”: un mix di orgoglio, passione e una mentalità vincente, da battaglia. Questo legame profondo con la propria storia rende il club granata un simbolo di tradizione e radicamento. Gran parte della nostra storia, lo avrete capito, è fatta di momenti e memorie. Gran parte di essa è fatta di ricordi. Talvolta amari, talvolta dolcissimi. Talvolta strazianti, talvolta fantastici. Nella stagione che si è chiusa, purtroppo, non abbiamo visto il vero Toro. O, almeno, quello che ci piacerebbe vedere e che vorremmo. Quello fatto non solo di ricordi, ma di concretezza e speranza nel futuro. L’auspicio di tutti i granata? Che i nostri avversari abbiano sempre rispetto del Toro, e, magari, anche un po’ di timore. Non solo per il blasone e la storia ma, soprattutto, per il suo presente. Vorremmo presto tornare a sentire questa frase: “La prossima partita giochiamo contro il Toro? Caspita, quelli sono proprio tosti…”.

Michelangelo Suigo

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