Ancora una volta l’anno solare si chiude con un incremento della popolazione detenuta: 1500 detenuti in più rispetto allo scorso anno. È il quarto anno di fila che la popolazione detenuta cresce, quattro anni da quando si sono esauriti gli effetti delle misure straordinarie messe in atto dopo la condanna della Corte europea per i diritti umani per il sovraffollamento penitenziario. Condannati nel 2013, quando nelle carceri italiane erano ospitati 62mila detenuti, eravamo scesi fino a 52mila detenuti nel 2015, ma da allora l’aumento è costante e siamo di nuovo oltre i 61mila detenuti (61.174 al 30 novembre scorso). Punto e daccapo. Nel frattempo, la capienza detentiva è sempre ottimisticamente valutata in circa 50mila posti letto, e dunque il tasso di affollamento ha ormai superato il 120% sul territorio nazionale, ma in molti istituti è ben oltre il 150%, il che significa che ogni tre detenuti, uno è di troppo.
Naturalmente, il sovraffollamento penitenziario si riflette sull’intero sistema penitenziario: non sono solo gli spazi che vengono a mancare, i letti a castello che si moltiplicano, le stanze che si affollano, ma tutte le risorse diminuiscono in maniera corrispondente, da quelle umane a quelle per l’assistenza sanitaria e per il reinserimento sociale dei condannati. Il personale penitenziario è sovraccarico, ma anche quello sanitario, e finanche i volontari faticano a star dietro alle richieste di aiuto. 52 sono stati i suicidi in carcere nel corso del 2019, secondo l’Osservatorio promosso da Ristretti orizzonti, cui si accompagnano alcune decine di tentativi non riusciti (grazie al pronto intervento di compagni di stanza, poliziotti e sanitari) e sono migliaia di atti di autolesionismo. Decine certamente, più probabilmente centinaia sono stati, infine, gli episodi di violenza e di conflittualità in carcere, tra detenuti e tra agenti e detenuti, in un clima di tensione sempre più palpabile di cui le inchieste e le denunce pubbliche sono solo la punta dell’iceberg di una realtà che rimane sotto il livello d’emersione. L’andamento dei tassi di criminalità, come è noto, non riesce a spiegare questo incremento della popolazione detenuta.
Da anni, diversi ministri dell’interno, di diversi governi e di diverso orientamento politico, ci rassicurano sul calo dei delitti e, in particolare, di quelli più gravi. Eppure la popolazione detenuta cresce, effetto di una passione per la punizione e il castigo che non è mai stata così forte come in questi anni. In fondo, il miracolo della riduzione della popolazione detenuta dopo la condanna di Strasburgo fu innanzitutto il successo di una contro-narrazione, guidata dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, che chiese e ottenne una diversa considerazione dello scandalo del sovraffollamento da parte di tutte le istituzioni competenti, di gran parte dell’opinione pubblica e del ceto politico. Da tre anni a questa parte, invece, il vocabolario politico della paura ha ripreso a mietere successi e vittime: i successi per i suoi cinici imprenditori, sempre lì a promettere di buttar via la chiave, le vittime sacrificate in carcere per reati minori o per tutta la vita.
Ci piacerebbe dire che la risposta del Governo non è stata adeguata alle necessità dei problemi emergenti, ma – a dire il vero – parte dei problemi sono stati causati proprio dall’azione di governo. Non possiamo dimenticare, infatti, che il primo Governo Conte, assumendo la responsabilità di non portare a compimento la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal Ministro Orlando, abbia cancellato ogni previsione relativa alle alternative al carcere, finanche per i malati di mente, con il risultato di rendere sempre più difficile la gestione dei detenuti con gravi infermità mentali, costretti a restare in carcere per una disparità di trattamento sanata solo nel febbraio scorso dalla Corte costituzionale. L’indirizzo del governo giallo-verde in materia penitenziaria era chiaro: la certezza della pena avrebbe dovuto identificarsi con la certezza del carcere, diffuso a piene mani, anche con nuove preclusioni di accesso alle alternative, come nel caso della cosiddetta “legge spazzacorrotti”, ormai prossima al giudizio della Consulta. Dunque: nulla di sorprendente, se a queste condizioni la popolazione detenuta aumenta. Lo avevamo previsto e siamo stati facili profeti. E non a caso aumentano i detenuti condannati definitivamente, che non riescono a trovare accesso alle alternative al carcere. Ormai il sistema dell’esecuzione penale sembra diviso in due: da una parte quelli che, sin dal processo, riescono ad avere accesso alle misure di comunità; dall’altra i dannati, destinati al carcere, dal primo all’ultimo giorno di pena, fosse anche per pochi mesi.
E come si gestisce una simile, ricercata, impresa claustrofila? Ma naturalmente con il bastone della disciplina e la carota della rieducazione intramuraria. Così da una parte abbiamo visto succedersi disposizioni amministrative disciplinari, come quella sui trasferimenti dei detenuti per ordine e sicurezza, che ha generato una specie di flipper penitenziario, rendendo ingovernabile il sistema, o quella per la prevenzione delle evasioni, mentre dall’altra si moltiplicano le offerte alle altre amministrazioni pubbliche di acquisire manodopera detenuta a titolo gratuito, senza alcuna prospettiva di reale reinserimento sociale dei condannati. Servirebbe un altro indirizzo di governo, che torni al principio fondamentale del carcere come extrema ratio dell’intervento punitivo dello Stato e favorisca le alternative alla detenzione, ma di quello del governo giallo-rosso, purtroppo, non abbiamo ancora contezza, salvo la continuità nella responsabilità politica e amministrativa.
Gli unici segnali in controtendenza, in questo 2019, li abbiamo avuti dalle giurisdizioni superiori, e in modo particolare dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti umani. Ancora una volta, come nel 2013, alle Corti spetta la responsabilità di mettere un freno alle scelleratezze della politica. Così è stato per le alternative al carcere per le persone affette da gravi infermità mentali (su cui, però, si attendono azioni e interventi delle Regioni e del Ministero della salute per potenziare i servizi psichiatrici territoriali, residenziali e non), così è stato per le preclusioni assolute alle alternative, giudicate illegittime dalla Corte europea così come dalla Corte costituzionale, seppure sotto profili e con effetti diversi tra loro.
Bene, ma non benissimo. In momenti particolarmente delicati, come quello che stiamo attraversando, le Corti superiori possono fissare un limite, richiamando giudici e legislatore al rispetto dei vincoli costituzionali e internazionali, ma non possono invertire una tendenza. Alla politica, a un’altra politica, spetta la responsabilità di rinunciare all’uso populista del diritto e della giustizia penale. È questa l’alternativa che vorremmo vedere nell’anno a venire.
