Per il momento sono stati “ricollocati” fuori Baghdad. Ma se la situazione dovesse precipitare Roma non potrà che seguire la strada del rientro intrapresa da Berlino. Non è una “fuga” ma può esserne l’avvisaglia. I militari italiani restano in Iraq, ma saranno spostati in parte fuori dalla capitale. Il trasferimento dal compound “Union 3” ha riguardato tutti gli uomini italiani impegnati nell’operazione di addestramento delle forze di sicurezza irachene – una cinquantina di carabinieri – ed è stato deciso dallo Stato maggiore della Difesa in accordo con i vertici della Nato.
Come ha affermato lo stato maggiore della Difesa, il quartier generale della Coalizione internazionale che opera in Iraq «al momento sta pianificando una parziale ridislocazione degli assetti al di fuori di Baghdad». Poi la precisazione: ciò «non rappresenta un’interruzione della missione e degli impegni presi» dall’Italia con i partner internazionali e che la decisione è stata presa a «livello di coalizione internazionale». La pausa delle attività di addestramento e l’eventuale ridislocazione dei militari italiani dalle zone di operazione irachene, sottolinea infatti lo Stato Maggiore della Difesa, «rientra nei piani di contingenza per la salvaguardia del personale impiegato» e dipendono «solo dalle misure di sicurezza adottate»: dunque «non rappresentano una interruzione della missione e degli impegni presi con la coalizione». Lo Stato Maggiore ricorda inoltre che «gli stati di allertamento e le misure di sicurezza sono decise a livello di coalizione internazionale in coordinamento con le varie nazioni partner».
La Germania ha invece annunciato il ritiro di parte delle sue truppe presenti in Iraq. Lo ha reso noto il Governo, spiegando che a seguito dell’uccisione di Qassam Soleimani a Baghdad ha deciso di ricollocare 30 dei 120 militari in Iraq – impegnati in operazioni di addestramento delle forze di sicurezza irachene – in Giordania e Kuwait. All’Italia si era rivolto il governo iracheno per formare le proprie forze di sicurezza sul fronte dell’ordine pubblico e in quattro anni – la missione è iniziata nel 2015 – i carabinieri hanno addestrato più di 36.500 agenti iracheni. Un contributo importante per la sicurezza del Paese così come sottolineato dal primo ministro iracheno, Adel Abdul-Mahdi e dal ministro dell’Interno, Yasen Al-Yaseri, al comandante generale dei Carabinieri, Giovanni Nistri, durante la visita del 29 dicembre alle forze italiane impegnate nei teatri operativi di Baghdad ed Erbil. Tuttavia la collaborazione rischia di interrompersi se dovesse cambiare il quadro giuridico che consente a forze militari straniere di operare in Iraq.
Ma quello che preoccupa di più è il cambio del quadro militare, al seguito dell’uccisione da parte americana del capo delle Forze Quds, il generale iraniano Qassem Soleimani. L’allarme rosso è scattato a Baghdad come in Libano, dove l’Italia è presente con 1200 militari inquadrati nella missione Onu Unifil 2, di cui peraltro il nostro Paese ha la guida. I caschi blu sono dislocati alla frontiera tra il Libano e Israele, in un’area, quella libanese, dove è preponderante la presenza, politica, amministrativa, e di controllo del territorio di Hezbollah, il Partito di Dio sciita stretto alleato dell’Iran. Nei giorni scorsi, il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha minacciato vendetta per l’uccisione del “Martire” Soleimani e ha detto che «La data del 2 gennaio è l’inizio di una nuova fase nella regione», «L’America ha iniziato una nuova guerra di tipo diverso. La morte di Soleimani ha dato il via a una nuova fase nella storia del Medio Oriente…».
Nasrallah ha minacciato l’esercito americano, ma come dice a Il Riformista il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri, «se esplode il Medio Oriente, tutti i militari occidentali diventano un bersaglio da colpire». Italiani compresi.
