Berlusconi, l’omelia di Delpini non è stata solo un inno alla nostra vita ma l’inno a Dio per la vita che ci ha dato

The coffin of media mogul and former Italian Premier Silvio Berlusconi leaves the Milan's Gothic Cathedral at the end his state funeral in northern Italy, Wednesday, June 14, 2023. Berlusconi died at the age of 86 on Monday in a Milan hospital where he was being treated for chronic leukemia. (AP Photo/Luca Bruno)

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla discussione sull’omelia di Monsignor Mario Delpini, arcivescovo di Milano, in occasione dei funerali di Stato di Silvio Berlusconi. La domanda che poniamo è la seguente: l’omelia è stata opportuna? Rispondono la ministra del Turismo Daniela Santanché, secondo cui l’omelia di Delpini “non è stata solo un inno alla nostra vita ma l’inno a Dio per la vita che ci ha dato”, e Ludovico Seppilli (giovani Forza Italia) che “avrei molto approvato quello che non è stato detto”

Qui il commento di Daniela Santanché:

L’omelia dell’altro ieri pronunciata dall’Arcivescovo Delpini ai partecipatissimi funerali di Silvio Berlusconi, mi ha sorpreso, e credo abbia sorpreso tutti i presenti nel Duomo di Milano per almeno due ragioni: la forma e il contenuto.

La forma: è tipico della scrittura del teatro sovrapporre due piani distinti, quello locutivo, ovvero sia quello della parola, e quello illocutivo, il gesto. La lettura del testo da parte dell’Arcivescovo va compresa in una forma del tutto particolare di azione: non quella teatrale, ma quella propriamente liturgica. Come azione liturgica l’omelia è stata il punto di saldatura tra la prima parte della celebrazione, i riti introduttivi e le letture, compresa l’anticipazione nel rito ambrosiano del congedo, e la seconda, l’Eucarestia.

Alle musiche gregoriane, senza ritmo, come sospese, la lettura dell’omelia ha dato la quantità, il peso, il corpo, lo spessore, ma anche il ritmo. La tecnica usata è la cosiddetta ripetizione in crescendo, fino a raggiungere un climax: all’inizio in forma anonima, eterea come il gregoriano, alla fine, con un tono che si fa via via sempre più vibrante, sostenuto, e pieno, dando un nome alla parola “uomo”: Silvio. Le ripetizioni -vita, amore, gioia- dal canto senza nome sono diventate la vita concreta non dell’uomo astratto, ma di un ben determinato uomo con un corpo. Alla tecnica della ripetizione, ora ritardata, ora accelerata, si lega il contenuto, tipico di don Giussani: il senso del reale. La vita è reale, è contraddittoria, è cangiante.

L’immanenza terrena cui l’uomo si aggrappa, che percepisce come opportunità da cogliere per far fruttare appieno i propri talenti, il desiderio che essa sia piena, e colorata dalla speranza di un successo persino nel momento della sconfitta, compone la realtà concreta che sarebbe tuttavia senza senso esistenziale se privata del senso ultimo, se privata di Dio.

Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora trovano in Dio il compimento e il giudizio, cioè la verità interiore che solo lui conosce, e quella definitiva: l’eternità.

Lo stesso, dicasi per il desiderio di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande.

Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. E anche il desiderio di gioia (essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti) trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.

Azione liturgica e giudizio senza pregiudizio di Dio, che conosce prima, e forse proprio per questo perdona. Ma forma e contenuto sono diventati nell’omelia dell’Arcivescovo Delpini la risposta alla musica gregoriana magistralmente eseguita in Duomo. Al coro degli Angeli musicato in Duomo tutti noi siamo stati invitati a intonare l’inno degli uomini a Dio, con tutte le dissonanze che ci appartengono e che Dio, conoscendole prima di noi, non nega, ma può perdonare. Io credo che l’omelia non sia stata quindi un inno alla nostra vita, ma l’inno a Dio per la vita che ci ha dato.