Il 28 luglio, nella storica cornice dell’Arena di Verona, 15mila persone hanno visto il maestro israeliano Daniel Oren dirigere L’Aida. Opera nutrimento di anime colte, divenuta ora specchio di una società che ormai è fatta di slogan anziché di contesti. L’applauso più forte lo ha difatti strappato il marketing del dolore. Tra il secondo e il terzo atto, sono apparse sui maxi schermi le scritte “Stop Genocide” sullo sfondo della bandiera palestinese. Fuori, in Piazza Bra, sempre alle 22, la folla gridava allo “sterminio”, alla “carestia”, accompagnata dall’antica campana del Rengo, sulla Torre dei Lamberti, per volere dell’amministrazione del Comune che, anche sui social, ha invitato l’intera città a rompere il silenzio su Gaza fischiando e facendo baccano.

Le vicende drammatiche smuovono le anime di tutti, a dispetto delle infami accuse secondo cui non toccherebbero gli israeliani, i sionisti o gli ebrei, tutti ormai un unicum per la massa sbraitante. Ma perché nell’equazione del dolore di Gaza non appare mai Hamas? L’organizzazione terroristica, che tiene in scacco gli abitanti di Gaza, decide delle loro vite arbitrariamente, uccidendoli come martiri, scudi umani o giustiziandoli come presunti collaboratori, omosessuali o semplicemente impiegati della Gaza Humanitarian Foundation, perché tolgono ad Hamas il potere dell’amministrazione del cibo.

Solo negli ultimi giorni, oltre 800 camion sono entrati da Israele e lasciati marcire dall’Onu, che teme di incappare in Hamas che vuole avere il controllo della distribuzione. Ecco la grande fame di Gaza, i grandi titoli e le piccole smentite quando si scopre che i bambini ritratti sono purtroppo affetti da gravi malattie o addirittura figli di altre carestie. Non voglio, sia chiaro, negare il dolore straziante della guerra; voglio solo chiedere perché lo strazio e la disperazione dei genitori degli ostaggi che Hamas minaccia di uccidere, se non otterrà ogni singola richiesta per la tregua, non sono lo stesso pugni allo stomaco. Ostaggi che, se liberati subito, avrebbero portato a un altro decorso della storia.

Lo chiedo allo stesso sindaco di Verona, Tommasi, che ho incontrato e ha rifiutato di vedere le immagini del 7 ottobre, perché super partes, motivo per cui non ha voluto ricordare i fratelli Bibas con una luce arancione o gli ostaggi con un fiocco giallo. Forse non ha chiaro il concetto di super partes se però appende sudari anche per i terroristi morti, se alimenta una propaganda costruita sul dolore del sensazionalismo, non sui fatti, la storia e i contesti. Bastano i numeri a spegnere l’uso della parola “genocidio”, impropria ma utile per trasformare chi ne è stato vittima in carnefice, vergognoso e pericoloso sport nazionale del momento, in cui il sindaco sta dimostrando di brillare anche più che nel calcio.

Perché in questa distorta narrazione, in cui chi ha subìto la Shoah dovrebbe sempre farsi massacrare in silenzio, non è più concesso un confronto, un’analisi, una spiegazione. Il pro-Pal, che non aiuta la popolazione, ma agevola il terrorismo, non conosce il senso del sionismo e lo vede come un insulto e il nuovo sdoganamento dei più vecchi stereotipi antiebraici, per cui servirebbero nuove leggi velocemente, chiare ed efficaci. L’unico sipario che è calato è quello della volontà di ascoltare e dell’umiltà di conoscere. L’urlo più forte batte la conoscenza. Verona è ancora città della cultura se non vuole ascoltare tutte le voci?

Federica Iaria

Autore

Vicepresidente Associazione Italia Israele Scaligero Estense