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Medio Oriente
Il veleno antisemita anche sui corpi dei piccoli Bibas. I cadaveri dei due fratellini e l’oltraggio terrorista

Ieri pomeriggio ancora non si sapeva con certezza se tra i corpi che i massacratori del 7 ottobre restituiranno domani ci saranno anche quelli di Ariel e Kfir Bibas – cinque anni il primo, due anni il secondo – e della loro madre. Smentite o conferme potranno essere intervenute quando queste righe saranno andate in stampa. O di lì a poco, cioè oggi, in vista di quell’appuntamento in ogni caso tragico.
Sarà comunque una tragedia perché, se anche non fossero quei bambini e quella donna a tornare cadaveri in Israele, si tratterebbe di altri pure rapiti 500 giorni fa e poi uccisi dai predoni del fanatismo terrorista palestinese. Ma è inutile far finta che sia comparabile il carico simbolico della vicenda di Ariel e Kfir, quei due bambini con la testa rossa, troppo piccoli per accorgersi del terrore della madre che li teneva in braccio nella deportazione organizzata dai nuovi nazisti. Per chi vi assista, per chi la osservi con la dovuta esattezza, l’atrocità indicibile della violenza che hanno subìto quei due minuscoli esseri umani sta proprio nella loro improbabile capacità di percepirla, giusto come il vilipendio di un cadavere fa inorridire più che l’offesa a un corpo vivo.
Mentre i loro corpi, morti o vivi, erano sequestrati, le loro immagini erano ricoperte di sputi e strappate in tutte le città fuori da Israele, da New York a Sidney, da Londra a Parigi; e nell’Italia che scrisse le leggi razziali diventavano “materiale” che Amnesty International “rimuoveva e deponeva nel cestino”. Insomma, la fine del 7 ottobre nella spazzatura. Il padre di quei due, il marito di quella madre, rilasciato qualche giorno fa, in prigionia ha potuto godersi il privilegio di non vedere trasmesse dalla CNN le immagini della propria famiglia onorate da quel trattamento.
Le pur importanti notizie che si sono affastellate in questi ultimi giorni e che ora insistono nel prefigurare i possibili sviluppi della scena generale – i piani arabo-egiziani per la ricostruzione di Gaza, le forniture di armamenti da parte degli Stati Uniti, la visita in Israele del segretario di Stato Marco Rubio, l’uccisione di un comandante di Hamas in Libano – recedono davanti a questa: la temuta restituzione in una bara dei resti di quella famiglia, un bambino che aveva nove mesi quando è stato rapito, il suo fratello poco più grande e la madre che ha dovuto viverne la morte.
Ma ieri un altro oltraggio, per quanto prevedibile, si consumava a insulto supremo di quei due, che messi insieme non facevano l’età di un adolescente. Era la vociferazione – non inedita nell’osceno romanzo composto nei 15 mesi a far tempo dal Sabato Nero – secondo cui sarebbero stati uccisi da un bombardamento israeliano: la retribuzione supplementare che occorre infliggere alle vittime di quel pogrom, vittime di sé stesse dopotutto. È una spietatezza che, se appunto non sorprende, tuttavia si abbatte in modo doppiamente sicario sugli ostaggi: imputati della colpa di appartenere, se vivi, o di aver appartenuto, se uccisi, alla schiatta genocidiaria che per perpetrare i propri crimini non esita a travolgere i propri figli. L’ultimo, scandaloso ribaltamento morale su una scena in cui i terroristi palestinesi non solo adoperano come sacchi di sabbia la popolazione civile, ma rivendicano di farlo reclamando il sangue di donne e bambini per rinvigorire lo spirito della “resistenza”.
Bisognerebbe mettere in fila, senza dimenticarne nemmeno una, le perle contraffattorie di quel racconto dolosamente artefatto. Che il 7 ottobre ci sono stati morti, sì, ma a farli è stato perlopiù Israele che sparacchiava a caso. Che le violenze contro le donne ci sono state, sì, ma parlare di femminicidio era improprio, anzi costituiva uno svilimento del termine. Che i terroristi avevano fatto un po’ di ostaggi, sì, ma in buona parte erano “soldati”. E, appunto, che Israele in realtà non si curava di loro, tanto che preferiva bombardare anziché liberali e, quando ne liberava alcuni, ammazzava centinaia di “civili” (tra i quali quelli che, civilmente, tenevano sequestrati gli ostaggi nelle loro civili case).
Chi volesse fare un esperimento per verificare quanto tenessero agli ostaggi – a Kfir e Ariel Bibas – quelli che caricavano la loro sorte sul conto delle responsabilità israeliane, faccia così: prenda le pagine dei giornali degli ultimi 15 mesi e controlli, non si dice quante volte da quelle colonne di stampa sia stata chiesta la loro liberazione, ma anche solo quante volte i loro nomi siano stati ricordati.
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