Ieri, dopo la notizia notturna secondo cui Hamas rilascerebbe alcuni ostaggi sabato prossimo, il Jerusalem Post annotava che Israele non riesce ad afferrare il bandolo e fatica a gestire la matassa che la controparte combina e scombina a suo piacimento, obbligando lo Stato Ebraico a prendere decisioni affannate in un intrico di drammatiche alternative.

È un rilievo inscritto nel più generale discorso circa la presunta assenza di prospettiva con cui Israele avrebbe intrapreso e poi continuato a condurre la guerra di Gaza, insomma il fatto che il governo dello Stato Ebraico non solo non avrebbe avuto un progetto per il “dopo”, ma neppure si sarebbe mai posto il problema di come portare a compimento le operazioni belliche e, soprattutto, in funzione di quale scenario successivo. Sono argomenti meritevoli di qualche attenzione soltanto a un patto, e cioè a condizione di riconoscere che era e rimane spaventosamente difficile gestire a livello politico, militare e strategico un simile conflitto.

Non si trattava e non si tratta, infatti, di un ordinario fronte di guerra (sempre che un fronte di guerra possa appartenere alle cose ordinarie), in cui l’esigenza è limitata all’ordine delle manovre e all’organizzazione dei rifornimenti. Si è trattato dall’8 ottobre del 2023, e continua a trattarsi, di una guerra urbana concentrata in un formicaio, mentre da almeno quattro parti circostanti (Libano, Siria, Iraq, Yemen) nonché dall’incombente regime iraniano provenivano non vaghe minacce ma concreti attacchi contro i civili di tutto lo Stato Ebraico.

Il tutto, ancora, mentre il complesso dell’opinione pubblica, la totalità delle organizzazioni cosiddette umanitarie, le Nazioni Unite con tutte le sue agenzie, due Corti della giustizia internazionale, la stampa maggioritaria e le piazze di mezzo mondo denunciavano il carattere genocidiario dell’azione bellica israeliana, descritta come un deliberato e inesausto sfogo di gratuite atrocità criminali. E il tutto, infine, mentre nei tunnel, negli ospedali e nelle case civili di Gaza erano trattenuti, torturati e un po’ alla volta assassinati gli ostaggi israeliani, con Israele sottoposto a giudizio se non li salvava e sottoposto a giudizio se, salvandoli, uccideva i rapitori e quelli di cui essi si facevano scudo. Che in un quadro tanto complicato occorra essere precisi, tempestivi, determinati, e avere visione, è banalmente ovvio.

Fingere che sia facile, e che l’errore anche grave non possa intervenire, è banalmente una fesseria. Non sbaglia dunque quel giornale israeliano quando argomenta che “La sfida che Israele ha affrontato durante questa guerra è la sua incapacità di riavere l’iniziativa”, ma sbaglierebbe chi ritenesse che le capacità israeliane non siano state messe alla prova da un assedio contestuale a dir poco soverchiante. Ieri, mentre i giornali del mondo confezionavano pagine e allestivano titoli speranzosi sulla tregua rimessa in sesto dalla dichiarazione di Hamas sul rilascio di alcuni ostaggi entro domani, un razzo lanciato contro Israele finiva su Gaza uccidendo un ragazzo palestinese.

Una evidente violazione del cessate il fuoco che, con ogni probabilità, per oggi sarà stata negata da parte palestinese o attribuita alla responsabilità della controparte israeliana. Non è il primo episodio di intralcio lungo il corso delle prime fasi degli accordi, un corso accidentato dai timori di Hamas di aver esaurito buona parte del proprio potenziale ricattatorio (il dominio aguzzino sugli ostaggi) e di vedere sempre più esposto il proprio potere a un assedio imprevisto, quello della consapevolezza ormai condivisa circa l’impossibilità che Gaza possa essere ulteriormente abbandonata al governo di quelle dirigenze fondamentaliste e sanguinarie.

Se ieri non fosse stato lanciato quel razzo, da Gaza verso Israele, sarebbe rimasta identica la realtà di un fronte combattente, solidamente assistito da buona parte della società palestinese, pervicacemente ispirato da ambizioni di “vittoria” incompatibili persino con il compimento delle attuali fasi dell’accordo, figurarsi con quelle più a lungo termine. E sono ambizioni nutrite dalla specie di disperazione assassina che conta di poter lavorare sui corpi vivi e sui cadaveri degli ostaggi che ancora trattiene, senza considerare che si tratta, ripetiamo, di un potere di ricatto sempre più smangiato.

Ogni ostaggio non rilasciato nei tempi concordati sarà un capo di condanna. Ogni ostaggio rilasciato in condizioni simili a quelle delle tre larve liberate sabato scorso sarà un’aggravante nell’irrogazione di una pena già stabilita. E ogni ostaggio restituito in una bara sarà un motivo di meditazione per i tanti che vagheggiavano soluzioni diverse rispetto a quelle sinora apprestate, e un motivo di determinazione supplementare per gli altrettanti finalmente arresi davanti all’evidenza che la guerra di Gaza non è finita. Semplicemente perché non può finire così, con Gaza ancora radicalizzata.