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Esteri
Hamas all’angolo: ultimatum di Trump e Netanyahu. Ma con i terroristi nessuna pace è possibile

Hamas era nell’angolo quando si costringeva ad accettare gli accordi per il cessate il fuoco e per la liberazione dei primi ostaggi, e finiva in un angolo ancora più stretto quando si faceva chiaro che l’attuazione di quegli accordi avrebbe via via smantellato il castello comunicazionale tenuto su da sedici mesi di propaganda contraffattoria.
Lo abbiamo già osservato nei giorni scorsi, ma vale la pena di ricordarlo. Montato con ambizioni di efficacia disastrosamente frustrate, il cinema che eternava il rilascio degli ostaggi israeliani tra quelle ali di miliziani ripuliti e in quella bolgia di civili in orgasmo per la “vittoria” comprometteva irrimediabilmente il racconto pregresso di una società falcidiata dall’assedio genocidiario e afflitta dalle sei o sette carestie annunciate come imminenti in una quantità di improbabili rapporti della cooperazione internazionale. Ma qualcosa di più significativo e implicante trasmettevano le immagini di quella ribalta.
La scena di quei plotoni tirati a lucido per l’evento dell’umiliazione finale degli ostaggi, con la Croce Rossa a mo’ di guest star in posa nella sottoscrizione dei documenti di rilascio e nelle calorose strette di mano con i torturatori, raccontava una verità fastidiosa innanzitutto per chi l’aveva confezionata: e cioè che sul tavolo di tutte le sedi decisionali, nella rosa di tutte le possibili soluzioni, nella spunta di tutte le ipotesi per il prosieguo degli accordi appariva ingestibile e incompatibile la pretesa di Hamas di esercitare ulteriormente il proprio giogo – che all’Onu chiamano polverosamente “potere de facto” – sulla Striscia di Gaza.
Era più facile ammetterne e giustificarne la presenza finché si trattava di una realtà fantasmatica, ma le frotte di miliziani sbucate fuori dai tunnel in una quantità di uniformi mai vista durante tutto il conflitto rendevano plateale una coppia di realtà banalissime quanto trascurate: e cioè, in primo luogo, che ottocentocinquanta soldati israeliani caduti a Gaza non erano il danno collaterale e domestico del genocidio in corso e non erano uccisi per mano di donne gravide, allettati in ospedale e bambini in ipotermia; in secondo luogo, anzi soprattutto, quella rassegna di belligeranti mascherati preconizzava il futuro di Gaza se Gaza fosse lasciata al perverso diritto di autodeterminazione che ha finora dimostrato di voler perseguire nell’inerzia o nella compiacenza generale.
La denunciata “pulizia etnica” imputata agli intendimenti di Donald Trump e al preteso assenso di Benjamin Netanyahu, al di là di esecrazioni risonanti ma perlopiù retoriche, è stata destinataria di contrasti intimiditi proprio da quella contrapposta realtà: all’immorale, all’inattuabile, alla giuridicamente inammissibile presunta “deportazione” nessuno vede giustapposta – perché non c’è – l’alternativa di una Striscia de-radicalizzata e ricostruibile. E l’alternativa non c’è perché c’è Hamas. L’alternativa non c’è finché c’è Hamas. Fino a un mese fa questa verità, che doveva essere evidente a tutti, era la presenza incomoda tenuta sotto al tappeto dei traccheggiamenti, dei tira e molla e dei tran tran delle diplomazie rigonfie di parole di pace e imbandierate d’arcobaleno, impegnate a far credere e forse anche a credere che la guerra di Gaza fosse alternativamente un errore o un crimine israeliano anziché la realizzazione della strategia di Hamas.
Una strategia che aveva bisogno della distruzione di Gaza, un effetto incredibilmente imputato alle ambizioni di sopravvivenza del governo israeliano e del suo capo anziché, appunto, a quelle dell’ordinamento terroristico che ha adibito ogni singolo edificio, ogni moschea, ogni chiesa, ogni ospedale e ogni scuola di Gaza ad altrettanti set di guerra allestiti sopra un’immensa trama di tunnel e presidiati da una sacrificabile guarnigione di centinaia di migliaia di civili. Oggi, anche se si continua a farlo, è più difficile chiamare “resistenza” quella strategia mortifera. Ed è più difficile proprio perché, venendo allo scoperto in quel modo, su palchi della “vittoria” che umiliava gli ostaggi irriconoscibili dopo mesi di tortura, Hamas ha messo allo scoperto l’inconciliabilità della propria sussistenza con ogni ipotesi di soluzione bonaria del conflitto.
Le ore da qui a sabato prossimo – data entro la quale Hamas è chiamata a dare inverosimili dimostrazioni di resipiscenza, revocando la propria decisione di sospendere l’attuazione degli accordi e dunque il rilascio degli ostaggi – potranno senz’altro riservare qualche sorpresa. Una non ci sarà: nessuno più – neppure chi l’avrebbe accettata fino a ieri, e ancora la accetterebbe allargando le braccia, facendo le mostre che non ci siano alternative – nessuno più saprà sostenere seriamente l’ipotesi che possa esservi qualsiasi pace con Hamas al potere.
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