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7 ottobre: quelle date di non ritorno della nostra storia

Giornalista e Docente - Milano
7 ottobre: quelle date di non ritorno della nostra storia

Come perl’11 settembre (quando il mondo assistette sgomento all’attacco alle Twin Towers di New York)  il 7 ottobre ha segnato un punto di non ritorno, trasformando una semplice data sul calendario in un “sostantivo”, una data-evento in se stessa, un fatto che ha irrimediabilmente cambiato il corso della storia globale. Se nel mito antico infatti il dio titanico Kronos divorava i propri figli, condannando il flusso degli eventi ad uno scorrere inarrestabile e “irreparabile”, nella nostra esperienza alcuni giorni sono scolpiti nella pietra, come a volerci ricordare che certe memorie non devono, e non possono, essere dimenticate.  “Il tempo è la sostanza di cui siamo fatti – scriveva Jorge Luis Borges –  È un fiume che ci trascina, ma anche un fuoco che ci consuma; è una tigre che ci divora, ma in qualche modo, siamo anche noi quel fiume, quel fuoco, quella tigre.” Da qui la domanda per il dibattito polarizzato di questi mesi: Siamo pronti ad ascoltare il richiamo della storia e a dare forma al futuro? Come diceva George Orwell, “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato.” Abbiamo il coraggio di abbandonare le retoriche opposte di questi mesi? Dobbiamo provarci.

Da quel massacro, Israele ha giurato una vendetta inizialmente comprensibile, radicata nel bisogno di difendere la propria esistenza, ma che via via si è trasformata in qualcosa di diverso: una risposta sproporzionata, resa oltretutto miope ed isterica  dal terrore della minaccia di Iran e Libano, volendo rispondere con la forza all’odio viscerale anch’esso esplicito, puro e distillato da parte di chi – si legge –  vuole cancellare gli ebrei e la loro nazione dalla faccia della terra. 

All’infinita antologia di errori storici si affianca l’ontologia del disprezzo reciproco, un terreno fertile sul quale sono fiorite narrazioni strumentali e manipolatorie: la legittima difesa di Israele è degenerata in una violenza indiscriminata, mentre l’antisemitismo latente – che cerca rifugio dietro la difesa di Hamas e Hezbollah – è diventato una giustificazione del terrore. I sostenitori della causa palestinese spesso sono rimasti in silenzio quando gruppi paramilitari hanno preso il potere, assoggettando il loro stesso popolo, costruendo bunker sotto scuole e ospedali, sacrificando civili innocenti in nome dell’odio contro l’ebreo. Le loro dottrine non sono state oggetto di critiche, né nelle piazze, né sui social media, dove la protesta è spesso confortevole, priva del rischio e del coraggio necessari a un’autentica riflessione.

Si rivendicano diritti e democrazie nelle teocrazie, ma lo si fa senza comprenderne davvero le implicazioni, immersi in una geopolitica superficiale che ignora le reali aspirazioni di quelle popolazioni. E se è vero che Benjamin Netanyahu ha commesso gravi errori, anche immaginando la sua uscita di scena, la questione palestinese resterebbe irrisolta, ancora sospesa sulle spalle di decenni di indifferenza e inazione da parte degli altri paesi mediorientali. Di cosa parliamo, allora? Vogliamo forse ignorare l’odio interno al mondo islamico, la rivalità tra sunniti e sciiti, che è alla radice di molte delle tensioni regionali, e che, con il pretesto di Israele e dell’Occidente, è diventato un rebus senza soluzione da oltre mezzo secolo?

Eppure, i pochi passi avanti compiuti in questi anni hanno avuto come denominatore comune il riconoscimento reciproco, non l’odio. L’ultimo di questi gesti di riconciliazione è stato rappresentato dagli Accordi di Abramo, che portano il nome del patriarca delle religioni del Libro, l’uomo forgiato dalle prove di una fede incrollabile, capace di affrontare persino la richiesta di sacrificare il proprio figlio. Come ha affermato Papa Francesco, Abramo è un esempio luminoso di come il dialogo e la fiducia possano unire le diverse fedi, essendo una figura condivisa e venerata dalle tre grandi religioni monoteistiche. Da quella prova Abramo è uscito come padre di tutte le famiglie della terra, stella polare per chiunque cerchi la pace invece della guerra.

Se ci riconosciamo uniti in un’unica fratellanza, possiamo manifestare non per dividere ma per unire. L’odio contro gli ebrei è un odio contro ciascuno di noi; la violenza contro gli innocenti di Gaza e del Libano è un torto che ferisce tutti. Ciò che viene fatto al fratello più debole è fatto a ognuno di noi, nessuno escluso. Sta in questi termini (e non in altre strumentalizzazioni) la lettura degli eventi nati drammaticamente il 7 ottobre, giorno in cui “kronos” della guerra ha divorato alla cieca i suoi figli. Per fermare il titano dobbiamo fare in modo che arrivino altre date incancellabili per la storia geopolitica di questo mondo, sottratte alla bulimia della guerra. Sarebbero giorni  in cui i nemici si lasciano un passato di lacrime e firmino una concordia di popoli e nazioni.

Giorni in cui, riconoscendosi reciprocamente, tutti diventerebbero “Isacco” (dall’ebraico letteralmente dio ride)  per la felicità del padre Abramo e per la serenità di tutto il mondo. 

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