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La lingua che parli è la tua casa

La lingua che parli è la tua casa

Il modo di esprimersi è molto più di un semplice mezzo di comunicazione: è comprensione, rappresentazione, espressione, memoria collettiva. Insomma, è pensiero.

È un motivo di profonda riflessione nei luoghi del mondo in cui una lingua diversa da quella parlata localmente è stata calata dall’alto, se non imposta. Abbiamo affrontato questo tema nell’ultimo numero di PRIMOPIANOSCALAc di Telos Analisi e Strategie, in riferimento a “Motu Haka, Le combat des îles Marquises”, il documentario sulle polinesiane Isole Marchesi, realizzato da Pascal Erhel Hatuuku insieme a Raynald Mérienne.

Il problema dell’identità linguistica è centrale nei tempi delle grandi migrazioni che stiamo vivendo. Noi italiani abbiamo una certa esperienza in materia. Chi non ricorda il parente andato in cerca di fortuna in America, Australia o Germania che parlava una lingua mista? Un creolo fatto di parole di un dialetto in uso decenni prima, termini del luogo di migrazione e qualche parola in italiano per condire il tutto?

Nel 1978, il linguista Tullio De Mauro segue il progetto ISFOL–Me, incentrato sulla formazione tecnica e linguistica dei nostri emigrati in Germania. L’iniziativa vede il coinvolgimento del Ministero del Lavoro italiano, di enti tedeschi, delle organizzazioni sindacali e dei centri di formazione nei contesti migratori. La Germania richiedeva infatti ai lavoratori non solo “braccia”, ma competenze specifiche. Per acquisirle, era però necessario conoscere il tedesco. Il progetto è innovativo e lungimirante, in quanto prevede l’insegnamento del tedesco, legato alla motivazione specifica del lavoro. Ma, allo stesso tempo, anche un’alfabetizzazione primaria in italiano che, per i migranti, non era la prima lingua. La loro vera lingua madre era infatti il dialetto (Vedovelli, Lingua, lingue, emigrazione, immigrazione, Treccani 2017).

Un progetto che ha fatto scuola, poiché è stato incentrato sul rispetto della cultura dei lavoratori coinvolti e sulla consapevolezza. L’approccio offriva infatti una visione plurilingue dell’educazione linguistica, che non negava il retaggio culturale di provenienza.

Questa esperienza ci ricorda che una lingua non si sostituisce senza lasciare macerie, perché, come dice Pascal Erhel Hatuuku nel suo documentario, “la nostra lingua è la nostra prima casa. Se la perdiamo, perdiamo il modo di vedere il mondo.”

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