Di ieri la notizia del suicidio assistito delle famosissime gemelle Kessler che, sotto il peso dell’età e afflitte dalla paura di morire in tempi differenti l’una dall’altra, hanno chiesto e ottenuto insieme la morte.
Non è importante se di mezzo ci fosse una qualche malattia lieve, grave o terminale: la legislazione tedesca (e la loro morte si è consumata a Grunwald) non lo richiede come condizione necessaria. Se si è maggiorenni, se si agisce responsabilmente e di propria spontanea volontà e se viene riconosciuta la capacità giuridica allora in Germania si può accedere al suicidio assistito ove, solo nel 2024, chi ne è ricorso è stato il 10% del totale dei decessi.
In Italia parlare di suicidio assistito è ancora un tabù nonostante siano passati alle cronache i casi di Eluana Englaro e Dj Fabo e nonostante gli sforzi andati a buon fine in alcune Regioni (Toscana e Sardegna) e meno in altre (Veneto). Di certo red line è stata, in assenza di una legge nazionale dedicata, la sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale che di fatto ha legalizzato l’accesso alla procedura ma solo a precise condizioni: la capacità di autodeterminarsi, l’esistenza di una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputa intollerabili, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.
Altra visione rispetto alla Germania che, tra l’altro, non si annovera nemmeno tra i Paesi più liberali sull’argomento (si pensi ad esempio la Svizzera).
Il freno nostrano è senz’altro etico e si arena da un lato sui limiti dell’attività medica e dall’altro sulla disponibilità della vita.
Qualcuno vorrebbe traslare questo freno sul piano della tecnologia come una sorta di avversione alla tecnica (ad esempio tante sono ancora le persone mal predisposte alla tecnica applicata alla riproduzione umana), dimenticando che oggi tutto è tecnica e tracciare una linea netta tra quale tecnica sia giusto accettare e quale no diventa un esercizio inutile e contraddittorio.
Però di morte non ne vogliamo parlare perché se abbiamo umanizzato e proceduralizzato la nascita della vita, la scintilla, il primo battito, molti chiedono che almeno non si tocchi la morte, ultimo baluardo, zona franca di sacralità.
“E’ dono di Dio” ricorda il filosofo Galimberti contestando che “se è dono, è roba mia e io ne dispongo” mescolando etica e diritto in un ibrido che non pacifica.
Il punto è che l’etica non va silenziata con ragioni superiori (che non esistono) ma va proprio tolta dal tavolo delle decisioni, dovrebbe essere considerata strumento da non adoperare nel giudizio delle fasi oggettive della vita come nascere e morire.
In Italia nessuno vuole davvero porsi innanzi a questa valutazione epocale che già sull’”inizio vita” ha fatto tanta fatica ad affermarsi. Ora si parla di “fine vita”: quanto tempo ancora potremo girarci dall’altra parte? Per quanto ancora l’etica arginerà la tecnica? E’ giusto fare tutto quello che la tecnica consente?
Altrove, evidentemente, una risposta l’hanno già data: ciò che è possibile si fa.
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