Chi mastica leggi finanziarie sa che il Governo deve presentare il disegno di legge relativo alla Manovra di bilancio entro il venti di ottobre di ogni anno. Stando all’art. 7 della legge 196/2009 lett. d), infatti, il disegno di legge del bilancio dello Stato è da presentarsi alle Camere nella tempistica suddetta.
Il Governo Meloni ha dalla sua parte il fatto che fosse impossibile rispettare tali termini d’opera atteso che l’esecutivo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia ha iniziato ad esercitare i poteri, che la Costituzione riconosce, dal 22 ottobre scorso (giorno di primo Consiglio dei Ministri dopo il passaggio di campanella da Mario Draghi).
Tempistica a parte, nel merito si tratta di un disegno di legge, quello licenziato da Palazzo Chigi da pochi giorni con la bollinatura della Ragioneria di Stato e che la Camera dei Deputati discuterà il prossimo 20 dicembre, composto da 174 articoli. Come ogni Manovra che si rispetti, il motore di previsione è dettato dalle “logiche di entrata” che per i tecnici del caso significa ragionare per competenza o per cassa (basti già vedere la tabella 1 legata all’art. 155). E se il tecnicismo la fa da padrone, anche il burocratese normativo esasperante non manca.
È così. Le leggi di bilancio si ancorano a strutture di finanza pubblica che solo alti dirigenti e funzionari di Stato possono capire fino in fondo unitamente a super esperti. D’altronde non bisogna meravigliarsi se la prassi istituzionali ha consolidato l’idea che lo scheletro dei d.d.l. governativi sia delineato e perimetrato proprio dalle alte dirigenze. Non è sbagliato, se proprio dobbiamo dirla tutta, per due motivi almeno: esistono leggi come la n. 196/2009 che prescrivono come debba coordinarsi la finanza pubblica (e i politici di turno al Governo non sempre sono ferrati di materia contabile o finanziaria); la Repubblica paga appositamente figure professionali di altissimo livello proprio per avere il meglio dell’esperienza a Palazzo Chigi.
La politica, però, non può farsene portatrice inconsapevole perché il linguaggio delle norme deve essere accessibile: non minimo o povero, ma che abbia la funzione propria di essere comprensibile anche ai non tecnici benché istruiti (facendo salvo quanto è necessario scrivere in termini di tecno-contabilità pubblica). C’è una consuetudine legislativa, ormai, che ci pone all’attenzione continui rimandi ad altre norme andando a ritroso fino a decenni addietro o per giunta inizio secolo scorso (soprattutto in materia fiscale ed esattoriale capita di arrivare a periodi pre-repubblicani). Veniamo ai giorni nostri.
In materia fiscale (Titolo III della Manovra) c’è da dire che le buone intenzioni, rappresentate in una quarantina di disposizioni, si articolano proprio con lo stile del burocratese su descritto. Chiunque così avrebbe difficoltà a studiare il testo, puntualmente, se non dedicandosi ad esso per mesi. Cervellotico o meno, il d.d.l. è in procinto di discussione in Parlamento; quest’ultimo potrà emendare o meno il tutto. Ed è sul fronte fiscale che il Governo si gioca buona parte della credibilità a venire se consideriamo tre elementi di valutazione: uno politico, uno tecnico-burocratico, un altro squisitamente probabilistico.
Partendo dal secondo di questi, basti leggere lo stato di previsione di cui all’art. 155 (che rimanda alla tabella 1 del d.d.l.) per comprendere che Palazzo Chigi scommette di ridurre il differenziale netto da finanziare nel giro di tre anni portandolo quasi alla metà (e ciò a prescindere se la tecnica di gestione contabile sia per competenza o per cassa stando alle stime riportate). L’idea del Mef a guida Giorgettiana è quella, anzitutto, di spingere su flat tax e regime forfettario (artt. 12 e 13) per il mondo micro-produttivo senza dimenticare il mega mondo della cripto-valute (art. 31). Ecco su quest’ultimo tema, ad esempio, ha ragion d’essere spiegare nella norma tutto ciò che serve al mondo dei commercialisti per assoggettare i traffici reddituali alla corretta disciplina contabile-dichiarativa.
In quest’ottica di indirizzo (anche se, ovviamente, si tratta di un volere politico più complesso), si giunge alla materia più delicata della Manovra: la questione fiscale appunto. Quest’ultima rappresenta il modo con cui lo Stato vuole garantirsi che quel “monte evasione”, stimato a 1.100 miliardi di euro circa (di cui solo il 6/7 percento recuperabili date le stime della Corte dei Conti), scenda nel corso di tre anni (leggasi art. 155) unitamente al differenziale netto da finanziare: in soldoni si tratta delle c.d. “uscite” (che, si badi bene, non sono tecnicamente debito pubblico). Il Capo III delle Titolo III del d.d.l., quindi, si lega ad un’altra parte ovvero al come lo Stato vorrà definire le liti con i contribuenti, cancellare le partite di magazzino fiscale minime ed/od irrecuperabili, definire in via agevolata i debiti con l’Agenzia delle entrate (attenzione solo questi), rottamare i carichi oggetto di cartella esattoriali, ecc.
A parte il fatto che gli artt. 41, 42, 43 mostrano palpabili disparità di trattamento tra cittadini-contribuenti (atteso che sono definibili solo questioni ove la controparte sia Agenzia delle Entrate, assurdamente, come se non esistessero altri Enti impositori o parti pubbliche come vuole l’art. 10 del D.lgs. 546/1992), c’è di particolare un ulteriore ragionamento. Lo stralcio dei carichi fino a mille euro previsto dall’art. 46 ha una conditio sine qu non: il c.d. debito deve risultare da “singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal primo gennaio 2000 al 31 dicembre 2015”. Per chi non mastica la materia può sembrare una sorta di cancellazione generale di debiti sotto la soglia predetta.
Così non è. È invece uno stralcio a beneficio di coloro che il debito lo hanno in fase esattoriale. Il ché significa che la disposizione del d.d.l. parla una lingua sbagliata perché si rifà a retaggi del Governo Conte (dal d.l. 119/2018 in poi) impraticabili ancor oggi sul piano della parità di chance dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione. In poche parole poniamo l’ipotesi classica di tre Signori a confronto.
Il primo ha un debito erariale con lo Stato di 500,00 euro che ha generato la cartella n. 1/2013; ciò fa presumere che a monte vi sia stato il c.d. affidamento in carico all’esattore (art. 17 D.lgs. 46/1999).
Il secondo ha un debito erariale con lo Stato di 800,00 euro che non ha generato alcuna cartella, ma è stato affidato in carico all’esattore nel 2014 con ruolo esattoriale (previsto dall’art. 49 DPR 602/73).
Il terzo Signore (il più sfortunato di tutti) ha un debito erariale di euro 200,00 nato nel 2010, ma per il quale non c’è stata emissione di alcun ruolo, affidamento in carico esattoriale o successiva cartella. In pratica nulla.
Ora, se tanto ci da tanto, i primi due gioveranno dello stralcio perché c’è stato un affidamento in carico. Il terzo no. È o no questa una disparità di trattamento che la Costituzione non ammette (art.3)? Il chiaro riferimento alle leggi del Governo Conte 1 (leggasi sempre art. 46 del d.d.l. in questione) fa pensare quindi a un mondo politico-normativo che fu quello del parto Lega-Movimento 5 stelle anche se da quel famoso “Contratto di governo” in poi ne sono successe tante cammin facendo.
A Giorgia Meloni tocca, ora più che mai, il dovere di intervenire chiedendo al Parlamento di perdonare il maldestro passo falso del Ministero che ha licenziato il disegno di legge – Manovra 2023, al contempo, sperando che i parlamentari tutti sappiano proporre le modifiche necessarie al testo. Di certo, il compito del Presidente del Consiglio si fa difficile, ma la Lega (a questo punto) deve stare accorta a non scivolare proprio alla prima occasione importante a Montecitorio o Palazzo Madama. Alle porte, ricordiamolo, c’è pur sempre l’area liberal-democratica pronta a raccogliere i frutti. E questa non è che un altro tipo di Manovra. Politicamente parlando, con l’arrivo della Nadef di settembre, forse, sarà un’altra storia.
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