Sappiamo bene tutti che la Costituzione italiana è fondata sul lavoro (art. 1). Altrettanto è risaputo che le scelte europee (e perciò di natura sovranazionale) vanno rispettate. Che qualcuno sia sottopagato per il lavoro che fa è inconciliabile con la questione della dignità: discorso che vale per qualsiasi lavoro e qualsiasi lavoratore a prescindere che si tratti di autonomo, dipendente privato o pubblico, piccolo imprenditore, ecc. (“la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” – art. 35).
Il motivo è semplice: al centro della Costituzione ci sono due pilastri imprescindibili come la dignità della persona e la funzionalità del lavoro nell’ottica di progresso materiale e spirituale della collettività nonché del singolo. Non a caso, sempre i nostri Costituenti, pensarono in un’ottica programmatica che la Repubblica si curasse della “elevazione professionale dei lavoratori” (sempre art. 35). Ecco, se prendiamo spunto dal termine elevazione possiamo riflettere come se fossimo su due binari (che, per quanto paralleli e non tangenti, sostengono insieme e comunemente il tessuto sociale):
– elevazione in chiave di soglia minima insuperabile che possa esser, concretamente, la base per cui considerare una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36);
– elevazione in chiave di massimo salario possibile a cui il lavoratore può tendere tramite, appunto, il proprio lavoro.
La questione è delicata, non c’è dubbio, perché si innestano sullo stesso tronco più politiche: del lavoro, sociali, industriali, ecc.
Il punto di fondo è evitare che il sistema economico non degeneri a tal punto da tollerare situazioni di sottopaga e, perciò, andando a violare il principio di proporzionalità della retribuzione del lavoratore. A presidio di questa eventualità, in Italia, ci sono ad esempio i sindacati, lo Statuto dei Lavoratori, i contratti collettivi nazionali, ecc.
Per esser ancora più puntuali sulla questione in analisi, ad inizio legislatura è stato presentato al Senato il disegno di legge Catafalco (n. 658): corpo di proposta normativa che, sostanzialmente, ripercorre i principi costituzionali e conferma la centralità dei contratti collettivi nazionali. Qui sorge una domanda: essendoci già la Costituzione ed altre norme che legittimano il ruolo di sindacati e della contrattazione collettiva a presidio della dignità e proporzionalità della retribuzione, qual è il senso o la funzionalità di tale ulteriore norma?
Il fatto di animarsi per un buon proposito, cioè la migliore tutela possibile per la persona ed il lavoratore, non significa autorizzarsi a partorire proposte sovrabbondanti e ridondanti giustificate solo dal titolo accattivante “Disposizioni per l’istituzione del salario minimo orario”. Ed ora, la questione del salario minimo va trattata con assoluta delicatezza perché ci sono almeno tre valutazioni di partenza da fare:
– la prima riguarda ciò che non è coperto da contrattazione collettiva nazionale (e che è giusto elevare ad un minimo per legge se c’è necessità di normare laddove ci sia il vuoto di inquadramento);
– la seconda riguarda il come ripensare il mondo del lavoro partendo dal motivare le piccole-medio imprese (perché se queste non assumono e non fatto utile tale da ripagare l’aumento dei fattori non c’è salario che tenga);
– la terza riguarda il cambio di paradigma ovvero non etichettare più il lavoratore (operario, dipendente) nell’ottica di minorità, ma in una nuova dimensione che lo motivi a voler tendere al massimo possibile e non aspettare ciò che lo Stato non può garantire per ovvie distorsioni di mercato che esso stesso ha contribuito a generare nel tempo (con le politiche fiscali, di pubblico impiego, spreco, ecc.).
E allora sul primo fronte dei tre, disegno di legge Catafalco a parte, l’Unione Europea ha deciso con direttiva comunitaria: il ché significa che ogni Stato membro è obbligato a raggiungere l’obbiettivo essendo libero, al contempo, di usare lo strumento normativo o le politiche di induzione che possano “migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’Unione”. Si tratta di una decisione che prende i primi passi dalla proposta della Commissione Europea del 28 ottobre 2020 ; proposta, quest’ultima, legata all’ottenere una armonizzazione di livelli qualitativi nell’ottica di “salari minimi adeguati nell’Unione europea…. facendo salva la scelta degli Stati membri di fissare salari minimi legali o promuovere l’accesso alla tutela garantita dal salario minimo fornita da contratti collettivi”.
In poche parole la decisione dell’Unione europea è tendente ad armonizzare normativamente pari chance effettive di retribuzione su tutto il territorio comunitario; quindi una norma più orientata ai sistemi giuridici ancora lacunosi od arretrati. In Italia, a questo punto, si è infuocato il dibattito. Salario minimo sì o no? Come se il problema fosse la norma in quanto tale. Il problema a monte, invece, è pensare a come il tessuto sociale possa far fronte al giusto e legittimo concetto per cui il lavoro non va sottopagato considerate due variabili: la legge di mercato e la legge in quanto tale. È qui che si inserisce il secondo fronte dei tre: in una situazione post pandemica (o ancor pandemica stando ai dati) condita di inflazione, eccessiva burocrazia, di opprimente e insostenibile tassazione, ecc. delle partite iva, non solo è a rischio la sostenibilità dell’ipotetico salario minimo, ma anche dell’ammontare complessivo odierno speso per le retribuzioni correnti (basti vedere quante partire iva medio-piccole sono indietro con i contributi previdenziali, versamenti d’imposta, ecc. pur di far fronte a stipendi e contratti pre-pandemici).
E questo non dipenderà dalla volontà delle imprese in quanto tale (si ragiona su macro scala e non del singolo caso che può anche essere oggetto di atti illeciti), ma da altri due fattori almeno: la velocità di scambio della moneta e la sempre minore capacità di utile tenuto conto di quanto sopra (inflazione, tassazione, ecc.). Allora c’è un cambio di paradigma da fare. Non è il salario minimo o il reddito minimo (per altri versi) che fanno la differenza di tutela se questo non è sostenibile o non è rispettato dalle logiche di mercato per effetto della convenienza del lavoro nero unito, ad esempio, al reddito di cittadinanza, ecc. A fare la differenza è reinventare il Paese ed avere la visione di un’Italia in cui per garantire salario minimo (che in multinazionali o grandi aziende si stenta ad immaginare possa esistere come problematica) non ci sia bisogno di una legge perché già i contratti nazionali collettivi nascono e si esprimo in chiave di autosufficienza.
Sicché, a questo punto, ci si pone una domanda: con un salario minimo per legge non ci sarà più bisogno dell’attività sindacale? Perché a questo punto basterebbe stabilire tutto per legge e indicizzare le retribuzioni (minime, medie, proporzionate, ecc.) al valore dell’inflazione ad esempio. Ne conseguirebbe, per ovvia deduzione logica, la modifica dell’art. 39 della Costituzione. Se questa domanda ha una sua validità e dignità su cui fondare una riflessione seria, domandiamoci anche se non sia la strada giusta fissare le retribuzioni per legge. A questo punto, però, se un attore del mercato conosce già le retribuzioni per norma non avrà convenienza a instradare il rapporto lavorativo con il proprio dipendente verso livelli ulteriori (salvo libertà di azione e contrattazione). Nascerebbe così l’effetto contrario: la retribuzione per legge consentirebbe agli operatori di mercato di generare prezzi, sì in competizione, ma tendenti alla polarizzazione: o troppo bassi o troppo alti, al contempo, intravvedendosi due finalità: – privare il consumatore (stipendiato) di libera scelta d’acquisto tra più beni merceologicamente alternativi in termini di soddisfazione, ma non di appagamento; – soggiogare il consumatore in termini di indebitamento ciclico rispetto a beni il cui accesso è da finanziarsi nel tempo e nello spazio.
In tutto questo vortice di cose, eventualmente possibili, c’è quel principio costituzionale che verrebbe violato ancora una volta ovvero il diritto al risparmio (art. 47).
È vero, “l’iniziativa economica privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41), ma a questo punto pensiamo a cosa abbiamo davanti: un Paese che ha già nella Costituzione tutti i pesi e contrappesi per garantire ciò che dice la direttiva europea. A questo basta aggiungere due ingredienti: garantire un mercato virtuoso al sistema delle piccole-medio imprese per far fronte, come è giusto che sia, a livelli crescenti di retribuzioni per i lavoratori. In sostanza: un imprenditore che vuole costruire, vuol anche vedere appagato il proprio team. Senza bisogno di leggi minime.
È pur vero, però, che per combattere il lavoro sottopagato occorre intervenire. E si torna al punto cruciale. Come ripensiamo il lavoro e il Paese? Soprattutto, chi deve farlo? È anche una questione culturale. Se pensiamo a Gramsci, egli ne parlava già ad inizio secolo scorso. La condizioni di minorità, infatti, rischia di esser indotta anche dal come si fanno le leggi. Effetto nefasto di una sorta di egemonia culturale per cui chi pensa di tutelare le fasce deboli, le sta condannando ad esserlo ancor di più se non accompagna la norma ad una ispirazione: volere il meglio, non il minimo. Intorno a quest’ultimo passaggio occorre tornare ad elevare. Primo fra tutti far tornare d’ispirazione il sogno senza cui non c’è futuro.
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