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Se parlassimo di politica. Davvero

Docente, Giornalista, Scrittore e Saggista
Se parlassimo di politica. Davvero

C’è un’Italia silenziosa che osserva, giudica e spesso tace. Un’Italia che non urla, che non si lascia trascinare nel vortice dell’insulto o della contrapposizione permanente, ma che attende — con pazienza e con dignità — che la politica torni a essere politica. Non spettacolo, non tifoseria, non sfogo collettivo, ma arte del governo e cura della cosa pubblica. Abbiamo smarrito, negli anni, il senso più nobile di questa parola. “Politica”, in origine, è la capacità di pensare la città, di immaginarla, di custodirla. È la dimensione del noi, non dell’io. È l’orizzonte del bene comune, non del tornaconto personale. Eppure, oggi, il dibattito pubblico è diventato un’arena: una corsa al titolo più provocatorio, alla frase più tagliente, al post più condiviso. È come se l’idea fosse passata di moda e al suo posto avessimo messo l’immagine, il gesto, la polemica. Eppure, se tornassimo a parlare di idee e non di insulti, scopriremmo che la politica italiana ha ancora energie straordinarie. Non mancano gli uomini e le donne capaci, gli amministratori che ogni giorno combattono in silenzio contro la burocrazia, i sindaci che lavorano per i loro territori, i docenti che educano alla cittadinanza, i giornalisti che raccontano la verità, i magistrati che difendono la legge, gli imprenditori che innovano senza clamore. Tutti loro sono i testimoni di una politica ancora possibile, di una buona politica che non cerca visibilità ma efficacia, non urla ma costruisce. La migliore politica italiana non è mai stata quella gridata. È stata quella pensata.

Quella che nasceva nei luoghi del confronto, nei circoli, nelle università, nei consigli comunali, nei giornali, nelle scuole. Quella di chi, prima di promettere, studiava. Di chi sapeva che governare significa comprendere la complessità, non semplificarla. Da De Gasperi a Berlinguer, da Moro a Spadolini, fino ai grandi sindaci del dopoguerra, la politica era tensione morale, era responsabilità, era servizio. Si poteva dissentire, ma non disprezzare. Si poteva discutere con forza, ma non distruggere l’altro. Oggi, invece, si è smarrito il senso del limite. I social hanno amplificato le passioni, ma hanno impoverito il pensiero. Tutto è immediato, tutto è emotivo, tutto è polarizzato. Non c’è più il tempo per spiegare, per argomentare, per cercare una verità comune. Eppure, la democrazia vive di tempo, di dialogo, di confronto. Quando si accorcia il tempo del pensiero, si restringe anche lo spazio della libertà. Forse dovremmo tornare a una politica della misura. Non quella che rinuncia alla passione, ma quella che la accompagna con la competenza. Non quella che urla “contro”, ma quella che propone “per”. Un Paese cresce quando si confronta, non quando si divide. E la divisione, oggi, è diventata la malattia cronica del nostro sistema politico e mediatico. Abbiamo bisogno di un linguaggio nuovo, di una grammatica civile che rimetta al centro il valore della parola, il rispetto, la verità. La verità, sì, perché anche quella sembra essere diventata un’opinione.

C’è una frase di Aldo Moro che dovremmo riscoprire: “La politica non è l’arte di prendere il potere, ma di servire la gente.” E in quella parola — servire — è racchiusa tutta la differenza tra la politica vera e la sua caricatura. Servire significa ascoltare, comprendere, mediare, rinunciare a qualcosa per il bene di tutti. È un esercizio di umiltà, non di potere. Il compito di una nuova generazione politica — e civile — dovrebbe essere questo: ricomporre la frattura tra la società e le istituzioni, tra i cittadini e le idee, tra la vita reale e la retorica. Bisogna restituire dignità alla parola “politico”, perché non può essere sinonimo di opportunista o di privilegiato. Bisogna ridare senso all’azione pubblica, che non può limitarsi all’amministrazione del presente, ma deve disegnare il futuro. E il futuro dell’Italia non si costruisce sui talk show o sui social, ma nei laboratori delle scuole, nelle università, nelle imprese, nei cantieri, nelle redazioni, nei tribunali, nei teatri. Lì, dove la politica può tornare a farsi cultura, e la cultura può tornare a farsi politica. Se parlassimo davvero di politica — e non di politica contro — scopriremmo che l’Italia ha ancora un cuore grande, fatto di competenza, passione e onestà. Un Paese che aspetta solo che qualcuno torni a parlargli con la forza mite delle idee. Perché la migliore politica italiana non è mai stata quella del potere, ma quella del servizio. E forse, oggi più che mai, è tempo di tornare a quella lezione antica.

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