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Sighetu Marmației, un ponte di giocattoli fra la guerra e l’Europa

Eurodeputato
Sighetu Marmației, un ponte di giocattoli fra la guerra e l’Europa

Il racconto del primo giorno della visita della delegazione di Italia Viva ai confini fra Romania e Ucraina. A Sighetu Marmației, un racconto di drammatica realtà.

 

La strada è stretta un po’ sconnessa, le case basse. Passiamo da una scuola dove ci aspetta Stefano, lui è un giovane italiano. L’amore, un pezzo di terra e una casa l’hanno portato in questo lembo di terra nei Carpazi al confine dell’Unione Europea. Lavora per una organizzazione non governativa e ci accompagnerà alla frontiera. Mi accorgo che stiamo per arrivare quando sui lati spuntano le prime tende dei volontari. La strada è animata, giovani con le pettorine colorate, sacerdoti ortodossi dalla barba lunga e le tonache ampie, la polizia. Tra questa folla di gente di buona volontà spuntano subito i volti di giovani donne e di bambini. Sono loro le vittime della guerra.

L’accoglienza è gentile, un poliziotto ci dà il benvenuto e scambia con noi parole in italiano. Le autorità ci sono tutte. Ci sono i deputati nostri amici del territorio, la vice sindaca, i responsabili dell’organizzazione dell’accoglienza. Tutti ci tengono a mostrarci il lavoro che stanno facendo. La temperatura è mite, il sole splende e camminiamo tra le tende senza giubbotto. Ci spiegano che una settimana fa qui nevicava e la temperatura era di molto sotto lo zero. E ovviamente che tutto, ancora, non era così ben organizzato: l’accoglienza con il cibo, le bevande calde e il rifugio caldo dove le mamme e i bambini possono trascorrere le ore prima di partire verso una destinazione più o meno lontana. Loro erano arrivati all’improvviso, come le bombe di Putin, in cerca di rifugio e sicurezza, e qui nessuno era preparato. La pizzeria che si trova proprio dopo i controlli doganali è stata la prima base per chi passava la frontiera scappando dalle bombe. I primi giorni le famiglie di Sighetu hanno aperto il loro cuore e le loro case per un primo riparo. Adesso tutto è organizzato e le pareti della tenda dell’accoglienza mescolano gli orari dei trasporti verso le destinazioni più remote dell’Europa ai disegni dei bambini che corroborano il senso di umanità che trasuda da ogni angolo, da ogni volto.

La frontiera di Sighetu è un passaggio doganale minore. Qui non c’è il traffico dei grandi mezzi di trasporto. Ci dicono che in questa zona prima della seconda guerra mondiale c’erano 5 ponti e 5 passaggi come questo. Dopo la guerra solo questo rimase aperto e ancora oggi porta i segni del tempo. Un ponte di legno non più largo di 3 metri. Si viaggia a senso unico alternato, anche se oggi il traffico veicolare è poco e tutto in una direzione, così come gran parte del flusso è a piedi. Chi fugge dalla guerra viene accompagnato alla dogana con la macchina saluta i suoi cari e attraversa a piedi questo ponte. Le mamme hanno in braccio i loro figli o li tengono per mano mentre dall’altra trascinano le valigie dove hanno racchiuso la loro vita. Mentre aspettiamo di passare dall’altra parte per incontrare il Governatore del distretto di Tjaciv, una sorta di Presidente della Provincia, mi colpisce l’interno della palazzina.

Tre bandiere campeggiano in bella vista dell’ingresso: quella rumena al centro, quella europea a sinistra quella della Nato a destra. Credo che il 90% degli italiani nemmeno saprebbero riconoscerla. Eppure qui, come avevo notato anche su un pennone all’ingresso del paese, è in bella vista. È un monito, un avvertimento e un messaggio di rassicurazione: qui sei in Romania, in Europa, nella civiltà e nello spazio dei diritti, e sei protetto perché noi ti difenderemo. Dopo i controlli ci avviamo per attraversare il ponte. Ai due lati palloncini colorati e tanti peluche, qualche macchinina, qualche gioco. Sono i ragazzi rumeni e i volontari che hanno voluto dare un messaggio di benvenuto ai bambini che attraversando quel ponte si lasciano alle spalle la propria casa e talvolta anche i propri genitori. I bambini ma anche i ragazzi più grandi si fermano a scegliere il loro peluche, che diventerà il loro compagno di viaggio nei giorni a seguire.

Negli occhi dei bambini trovi sempre la felicità davanti a un peluche. Mentre quelli dei ragazzi più grandi, degli adolescenti, appaiono malinconici, e sembrano riversare su quei peluche la tristezza e la paura di un viaggio verso l’ignoto. A metà del ponte una striscia scolorita ti dice che sei in Ucraina, sotto le acque del Tibisco scorrono tranquille e disegnano la lunga linea di confine tra un paese in pace e uno in guerra, tra un paese libero e uno occupato, tra l’Europa, la Nato e chi vorrebbe farne parte. Alla fine del ponte il cartello Giallo Blu e la scritta in cirillico ti avvertono che sei nel paese al centro del conflitto.

I militari veri quelli che controllano i confini sono al fronte a controllare la frontiera, qui c’è un ragazzo in mimetica. I capelli biondi, gli occhi azzurri, una faccia da ragazzino che tenta di atteggiarsi a uomo duro. Non è con la faccia che si guadagna il rispetto e il timore di tutti ma con il kalashnikov che porta a tracolla. Ci viene incontro un giovane. È l’assistente del Governatore, si chiama Ivan. A fare le presentazioni è un nostro amico deputato rumeno della zona che ha con lui un rapporto familiare e costante anche per organizzare gli aiuti alle popolazioni rimaste in patria. Ci saluta calorosamente e si avvia con i nostri passaporti nel gabbiotto dei funzionari di frontiera. Un timbro e possiamo passare. Due fuoristrada ci portano in paese, a circa 500 metri dalla dogana. Nella piazza in cui ci fermiamo c’è una chiesa e il monumento al re Stefan, un eroe del 1450 con la croce in una mano e la spada nell’altra e con lo sguardo severo rivolto verso l’interno dell’Ucraina che sembra ammonire “l’anticristo Putin”. Rispetto a dove ci troviamo i bombardamenti sono lontani, la bomba più vicina è caduta a 150 km da qui.

Ma il vento freddo della guerra si respira lo stesso. Gli amici Ucraini hanno preparato un tavolo nel bar della piazza. Siamo solo noi deputati Italiani, Rumeni e l’assistente del governatore. Il Bar è pulito, ordinato e ricorda quelli della provincia italiana ormai demodé dove trovi sempre la signora anziana dietro il bancone che ti accoglie con il sorriso severo e una tazza di caffè. Ci sediamo e ci offrono acqua, succhi di frutta e per chi vuole, ovviamente, un caffè espresso. Devo dire meglio di tanti bevuti a Bruxelles. La sensazione è strana. Siamo in un paese in guerra eppure il clima è familiare, accogliente, dignitoso e orgoglioso. Arriva un uomo alto, longilineo, con i baffi e due occhi luminosi: è il presidente della Provincia, il governatore. Ci racconta della guerra, della necessità di tenere la sua comunità unita, di far fronte ai bisogni dei tanti sfollati dalle zone di guerra che si sono riversati in questa zona relativamente tranquilla e che vogliono aspettare a varcare il confine. Sperano che la guerra finisca presto e che possano rientrare nelle loro case, ricostruirle. Ci parla dei problemi di approvvigionamento dei medicinali, delle cure per i malati cronici, per i malati di tumore. È un uomo mite, parla lentamente. Prima di salutarci e di unirsi a noi per una foto davanti al re Stefan, ci fa promettere di tornare a guerra finita in quello stesso posto per mangiare assieme. Abbiamo rilanciato e ci siamo promessi che ceneremo assieme a Kyiv. Ci siamo stretti la mano guardandoci negli occhi e dandoci appuntamento, appunto, nella capitale.

Il tempo fugge e noi siamo ancora qui alle 3 del pomeriggio, bisogna ripartire. Assieme alle auto dell’andata viene anche lui con la sua. Lui è una autorità ma ha meno di 60 anni e non può uscire dal confine. Davanti alla bottega di frontiera ci salutiamo. Gli diciamo che lo aspettiamo in Italia, a Roma, a Firenze. Ci rivela di essere un professore di storia e che sarebbe per lui bellissimo venire dove la storia della civiltà si è compiuta. Ci salutiamo di nuovo e ancora una volta i suoi occhi sembrano dirci che la storia che lui deve scrivere oggi è qui, in questo paese invaso, bombardato. Ma in piedi. Come all’entrata l’assistente del presidente ci prende i passaporti per il timbro di uscita. Aspettiamo in una delle corsie per auto. Un flusso di donne rientra in bicicletta dalla Romania all’Ucraina, hanno borse attaccate ai manubri con cibo e vestiti. Sono le transfrontaliere che lavorano in Romania e rientrano a casa. Scorgo il volto di una mimetica. Una ragazzina bionda, capelli lunghi, occhi azzurri. Potrebbe avere l’età di mia figlia, penso, forse meno.

La guerra le ha fatto indossare una mimetica, chissà se per scelta o per costrizione, tuttavia ci guarda con quegli occhi grandi e mi sembra scorgere in lei quello stato di eccitazione e timore come prima di un esame. Il ragazzo con il kalashnikov, la ragazza con la mimetica, rappresentano il risultato di una guerra che li ha fatti crescere troppo in fretta. Passiamo il ponte in senso opposto. Dall’altra parte ci aspetta la Romania, l’Europa, la Nato. Lo facciamo in silenzio. C’è in noi quasi un senso di colpa per aver lasciato dall’altra parte persone a combattere una guerra anche per noi. Controllano i passaporti in Romania. La visita a Sighetu sta per finire. All’improvviso delle sirene iniziano a suonare, in Ucraina. Sono le sirene, antiaeree, quelle dei bombardamenti. Un brivido ci corre lungo la schiena. Ma siamo in Romania, in Europa, nella Nato. Si riparte