Proviamo ad essere seri e mettiamo in fila i fatti di questo ultimo mese.
Il 18 maggio scorso, Gaetano Manfredi, con un’accorata lettera pubblica, esclude di poter correre per le elezioni di Napoli nelle condizioni di dissesto sostanziale in cui versa il Comune.
26 maggio, Giuseppe Conte, Enrico Letta e Roberto Speranza sottoscrivono un accordo che li impegna a promuovere una legge speciale per intervenire sul debito della città: il cosiddetto “patto per Napoli“. Tralasciando i numerosi punti oscuri del documento, il quale traccia il profilo di un commissariamento di fatto del Comune e della futura amministrazione, da subito appare poco chiaro anche il percorso politico che il patto stesso delinea. Infatti sono molte le città italiane in condizione di sostanziale dissesto, ampia e trasversale dovrebbe essere la maggioranza capace di sostenere un tale sforzo parlamentare e, particolare non trascurabile, in carica c’è un altro governo: non il Conte 2, ma il governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi.
Ma proseguiamo con ordine.
27 maggio , Manfredi annuncia di aver accettato, sub condicione (il suddetto patto appena sottoscritto), la candidatura come sindaco di Napoli. A sostenerlo tutto e il contrario di tutto: Movimento 5 Stelle, deluchiani, Pd, Leu, e altri.
1 giugno, gli esponenti regionali campani del M5S Brambilla e Muscarà annunciano: a Napoli correremo da soli.
6 giugno, Davide Casaleggio consegna a Giuseppe Conte le liste degli iscritti alla piattaforma Rousseau, pare sotto lauto compenso, e lascia il Movimento 5 Stelle.
8 giugno, Manfredi dichiara in conferenza stampa: il patto funzionerà.
15 giugno, Conte, in campagna elettorale “tra la gente” con Manfredi per le strade della città, lancia il “laboratorio” Napoli. Poi dichiara: col PD nessuna alleanza strutturata, bene dove possibile accordo, altrimenti non mi straccio le vesti.
17 giugno, gelo tra i parlamentari democratici: Conte volubile, meglio Di Maio.
24 giugno, salta l’evento pubblico di presentazione del nuovo statuto e della carta dei valori del M5S. Grillo dichiara: sono un garante, non un coglione.
27 giugno, dopo reiterate prese di posizione durissime contro le decisioni in materia di emergenza sanitaria adottate dal governo Draghi, il governatore della Campania De Luca, tra gli “azionisti di maggioranza” della candidatura Manfredi, già radicalmente contrario a qualsiasi accordo con i 5 Stelle, chiede le dimissioni del ministro della Salute Speranza, leader di LEU e sottoscrittore del “patto per Napoli”.
28 giugno, in conferenza stampa, come sempre in diretta facebook, Giuseppe Conte annuncia: non mi presto ad operazioni di facciata, non sarò il prestanome di nessuno, riferendosi allo scontro ormai pubblico col fondatore Beppe Grillo per la leadership del M5S.
Nemmeno finito giugno, insomma, possiamo già affermare che il fragile “patto per Napoli” si è rivelato niente altro che l’ennesimo “pacco per Napoli“, di cui in città non si sentiva francamente il bisogno. Anche solo immaginare un tale guazzabuglio a Palazzo S. Giacomo, dopo 10 anni di doloroso declino, mette i brividi.
Tutti i presupposti politici, sostanziali e formali, con i quali l’ex rettore della Federico II aveva motivato la sua “discesa in campo”, dopo “il grido di dolore” di un mese fa, sono andati in frantumi, polverizzati. Nessuna alleanza, nessuna leadership indiscussa, nessuna filiera istituzionale pronta a collaborare. A Roma non c’è niente e nessuno pronto a sostenere alcun patto per salvare Napoli.
Sarebbe bello (e forse utile) se l’ex Rettore, con la consueta onestà intellettuale, prendesse atto dei fatti, i quali lo hanno tutti pubblicamente smentito in un solo mese, e tornasse all’inizio di questa breve e un po’ incresciosa storia:
“Non mi candido, non ci sono le condizioni“.
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