Cacciari sbaglia, ecco perché ce ne frega del pericolo fascista

Quando un autore molto apprezzato dalle parti di Palazzo Chigi come Jünger decantava le virtù ribellistiche dell’“uomo che rimane nel bosco”, di certo non immaginava la resistenza di un ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste che combatte contro i grilli, le cavallette e la carne sintetica in nome dell’insurrezione culinaria. Torna così oggi il mito agreste dell’Italietta rurale, autarchica nell’uso delle parole e nella scelta dei libri di scuola, sovrana nella produzione del pane e del vino. Il revisionismo sui fondamenti della Repubblica, per precipitare d’incanto nel mondo che esisteva prima della Costituzione, completa il recupero delle radici che cancella ogni apertura cosmopolitica nel segno del culto mistico della terra e dei vincoli di sangue.

L’ingegner De Benedetti che definisce Meloni una semplice “demente” o Gustavo Zagrebelsky che la raffigura come una pura “idiota” (in senso etimologico, precisa il giurista) non comprendono che c’è del metodo nelle amnesie della premier che incespica di proposito per cadere sui basamenti storici della Nazione. La patriota Giorgia chiama, il decano Ignazio Benito risponde per insinuare ponderati dubbi sulle date-simbolo della Resistenza. E in un attimo scende la notte sulla repubblica, colpita duro nei suoi miti fondativi. La rivoluzione conservatrice nei tempi liquidi della postmodernità ha trovato i suoi interpreti, e nell’opera di distruzione creatrice tutti gli attori sono scatenati. Quando John Locke cominciò a parlare di governo della discussione, per enfatizzare il ruolo costruttivo del confronto delle opinioni nello spazio pubblico, non aveva ancora potuto assistere ad una performance televisiva di Italo Bocchino. La parola, che per il filosofo inglese era la radice del processo deliberativo da impostare su basi razionali e consensuali, con le esibizioni del microfono bollente della destra giornalistica diventa un arnese al servizio dell’eristica, utile solo a colpire metaforicamente alla cieca. Dura la legge del talk show, quando attorno al tavolo delle chiacchiere tocca sentire un opinionista prorompere “chi se ne frega del fascismo!”.

E invece ce ne frega. La sinistra e le forze democratiche sono state ipnotizzate dalla tesi, più volte espressa in video anche da Cacciari, secondo la quale solo degli sprovveduti potrebbero interrogarsi sui rischi odierni di fascismo. Certo, se si guarda spaventati all’ottobre del 1922 che si ripete in forme farsesche si è dei nullafacenti nel campo dell’analisi e dei perditempo nel teatro della battaglia politica. Ma se, al posto del cannocchiale retrovisore utile a scorgere le ombre dei passi cadenzati delle squadracce, si prende la lente per decifrare da vicino i simboli di quello che lo sguardo può afferrare oggi, i risultati si dimostrano di una limpidezza cristallina. Al potere, in ruoli del tutto preponderanti, si trovano politici di ascendenza neofascista, cioè i cultori di un’ideologia distruttiva mai in fondo rinnegata. Fa persino invidia vedere che, mentre quelli dell’altra parte, colpiti (non solo cinematograficamente) dall’asta di una bandiera rossa caduta a Piazza San Giovanni, sono indotti dallo choc a confessare di non essere mai stati comunisti, i cuori neri, invece, ci tengono eccome ad esibire il busto del duce, a indossare le vecchie divise, a rispolverare le parole d’ordine e l’orgoglio degli “esuli in patria”. Bisogna riconoscere ai post-missini una fermezza identitaria che i loro rivali post-ideologici si sognano, disinnescati ogni volta che mostravano “il pugno del partito” dal fuoco amico ma dissolvente di “Repubblica”.

Sarebbe molto rassicurante dare retta a Cacciari e dire che ha ragione lui, questi al governo sono dei normali conservatori europei. Tutto a posto nella vecchia Roma delle istituzioni, niente di anomalo nelle stanze del potere, lo spettacolo della videopolitica può continuare. È solo che questa volontà di credere a una provvidenziale opera di “dediabolizzazione” delle leve missine non conduce da nessuna parte, perché risponde semplicemente ad una totale rimozione che non ha la forza per durare oltre i nudi fatti e le biografie dei protagonisti. A Palazzo Chigi, a Palazzo Madama, in molti altri avamposti del potere, abitano dei politici che si mantengono ostinatamente fedeli ai feticci coltivati in gioventù. Questi fieri eredi degli anni ’70 non si sono visti piovere un manganello sulla testa il giorno dei funerali di Almirante, per risvegliarsi oltre sei lustri dopo e giurare che non sono mai stati fascisti. Meritano considerazione perché non indietreggiano rispetto alle vulgate truci che li hanno plasmati quando erano ancora in fasce. Hanno peraltro vinto nel settembre nero esibendo un perfetto rispetto delle procedure democratiche. Per salire trionfalmente a Palazzo Chigi, non hanno avuto bisogno di forzare e reprimere.

Questa normalità del successo rimane la vera ferita aperta, che la rassicurante predica su una loro fatale conversione avvenuta sulla via di Bruxelles risparmia dall’evidenziare. Non si sono iscritti alla scuola serale della Merkel per apprendere i rudimenti del moderatismo conservatore e presentare la loro leader come “Mutti” o “madre” degli italiani. Hanno una identità, la solita, che non archiviano per nulla al mondo. L’ammirazione per la coerenza ideologica dell’avversario – c’è un pensiero critico, ad esempio, negli scritti di un intellettuale acuto come Marcello Veneziani, a cui però fa da controcanto una manovalanza non molto educata nelle arti dell’argomentazione spedita lungo tutto il “globo terracqueo” delle reti tv – va però congiunta alla ricostruzione di un’alternativa politica e ideale per non smobilitare.

La destra ha un pensiero preciso su chi e cosa aggredire, quando colpisce dei simboli non lo fa mai a casaccio. Nell’azione di governo sono certamente carenti, con un’inefficienza nell’amministrazione che spesso emerge in maniera persino imbarazzante. Intuiscono, però, da gente a lungo esclusa dai salotti buoni, come ci si incolla al potere: non sapendo come essere ottemperanti alle infinite promesse “materiali” fatte per raggranellare consensi, comprendono che occorre incidere nel campo dell’immaginario, dei valori. Per restare ben assisi sullo scranno conquistato, bisogna buttarla in quella che, nella rappresentazione della stampa, appare solo come una caciara identitaria. In realtà, pur nelle forme di un conservatorismo casereccio, la destra occupa i media per insediarsi stabilmente nel senso comune. E allora, impossibili i blocchi navali promessi in campagna elettorale ed escluso l’affondamento delle imbarcazioni delle Ong, è saggio ricorrere a dei surrogati simbolici. Dinanzi alle morti in mare, dal governo esce un brusco rifiuto di ogni gesto di umana commozione: la pietas fugge e il palazzo preferisce ricorrere ad una brutale attribuzione della responsabilità ai genitori sprezzanti dei pericoli delle onde per i propri figli.

Dalla strage di Crotone a quella delle Fosse Ardeatine, il copione non cambia ed è redatto nel consunto gergo del nazionalismo. Sul fronte marittimo, era in gioco la simulazione di fermezza contro l’invasore che viene con le barchette pronte a ribaltarsi ai primi marosi, nella rievocazione storiografica degli eccidi nazifascisti, invece, entra in ballo la difesa identitaria di chi era stato relegato dai partigiani e dai loro epigoni partitici negli scantinati della Repubblica mai amata. Nella cava di pozzolana sull’Ardeatina sono stati uccisi dei martiri, massacrati “solo perché italiani”. In questo modo, con il riferimento esclusivo alla nazionalità, si realizza la metamorfosi magica per cui anche i fascisti sarebbero vittime, e non complici, dei carnefici nazisti da cui strettamente dipendevano nelle retate della morte. Quella di La Russa non è una semplice “sgrammaticatura” (Meloni) per correggere la quale basta istituire, per le fortunate generazioni future, il “liceo del made in Italy” – “liceo del realizzato in Italia”, senza “forestierismi”. Se Palazzo Chigi, contrapponendo in blocco gli abitanti della Penisola ai tedeschi, in ultima analisi concede il salvacondotto alle camicie nere in quanto indiscutibili esponenti dell’italianità, il presidente del Senato completa l’opera di revisionismo istituzionale, con i partigiani raffigurati come combattenti vili, che per vigliaccheria fuggivano dallo “scontro a fuoco faccia a faccia con i nazisti”, e il battaglione di obbedienza nazionalsocialista caduto a via Rasella come un’orchestrina di vecchietti amanti della musica tradizionale altoatesina.

A completare l’operazione dei “patrioti” per l’egemonia culturale, fioriscono proposte di legge per punire l’uso dell’inglese, e soprattutto compare il cognato di Stato che si scaglia contro le braccia rubate all’agricoltura distese a sbafo sui divani. Per mostrare di che pasta sia fatta la Nazione ritrovata, Lollobrigida insegue l’autarchica sovranità nello spazio alimentare. E dato che non c’è mai progetto senza tradizione, in un aggiornamento creativo della battaglia contro le zanzare per bonificare l’Agro Pontino, egli organizza la campagna contro i grilli che minacciano i palati del Belpaese. Né “dementi”, né normali conservatori europei, gli esponenti della destra al potere incarnano la versione inedita di un fascismo democratico che ha elettoralmente conquistato le teste, senza aver avuto il bisogno di spaccarle. Contrastare l’onda neoconservatrice richiede una scelta tra la via tracciata dalla Cgil, che ha accolto Meloni a Rimini perché crede che fascisti siano solo i sei studenti fiorentini maneschi, qualche plotone scalmanato di no-vax e gli occupanti di Casa Pound, e la strada opposta indicata dall’Anpi, che vede il nero accasato nel cuore dello Stato e vorrebbe depennare le cariche istituzionali dagli inviti per il 25 Aprile.

Ha di sicuro un che di tragico festeggiare la Liberazione quando tocca proprio ai postfascisti del terzo millennio stabilire le nuove radici della comunità politica e usare i sigilli del potere per additare i gappisti, i partigiani più combattivi, come nemici della patria. Bisogna fare come le oche del Campidoglio che, scriveva Hobbes, con il loro chiassare difesero non le persone ma le istituzioni, e quindi insistere con il modello dialogante di Rimini? Oppure sarebbe più produttivo far valere sino in fondo l’indignazione per un patto costituzionale sfigurato nelle sue basi da quelli che oggi detengono il comando? La strategia indicata in una recente intervista a “La Stampa” da Gianni Cuperlo, uscire dall’Aula ogni volta che la presiede La Russa, rappresenterebbe senz’altro una soluzione efficace. Di certo, la vecchia repubblica è vicina al crepuscolo, quella nuova avrebbe il volto inquietante di un potere costituente che la destra intende con tutta la forza brandire per edificare una pallida democratura mediterranea.