No, le scuse non bastano, signor presidente del Senato della Repubblica. Sarebbero sufficienti per un normale cittadino, non per la seconda carica dello Stato che ha offeso i protagonisti di un episodio importante della lotta di Liberazione contro il nazifascismo; partigiani impegnati nella realizzazione, anche drammatica, dell’imperativo del non mollare neppure di fronte all’occupazione e alla più terribile delle repressioni.

Il presidente del Senato, attaccando sgangheratamente e irridendo a un esempio doloroso di quella lotta di Resistenza e di Liberazione da cui è nata la nostra Repubblica, si è reso incompatibile con la carica che ricopre. Egli ha rovesciato il famoso appello ai giovani di Piero Calamandrei del gennaio 1955, nel decennale della Liberazione. Aveva detto Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati». Anche i partigiani di via Rasella fanno parte di questo popolo di combattenti per la libertà a cui dobbiamo la nascita della Repubblica. L’appello valeva ieri e vale allo stesso modo oggi e vale, a maggior ragione, per le cariche della Repubblica che è nata in quei luoghi e da quei protagonisti, loro sì patrioti.

L’averli infangati da parte di chi occupa quella cattedra può essere riparato solo dalle dimissioni di chi, con quell’atto, non se ne è reso degno. In questi giorni si è fatta strada, nella parte più avvertita dell’opinione pubblica del paese, un moto di indignazione. Un buon segno, seppure bisognoso di un consistente allargamento e, alla stessa stregua, della necessità di andare nel profondo della società raggiungendo e guadagnando il consenso attivo nei ceti popolari, nelle aree del disagio sociale. I giovani possono rivelarsi una straordinaria forza di mobilitazione. L’indignazione, di fronte a un atto di così pesante provocazione, nei confronti della storia repubblicana da parte di un’autorità dello Stato è del tutto necessaria. Ma non può fermarsi qua, come se si trattasse di un caso seppur così deplorevole. Va indagato il contesto in cui si produce, la fase in cui si inscrive, gli obiettivi che il governo della destra si è dato e che intende perseguire. La componente ideologica è in essa assolutamente decisiva e, in essa, centrale, a una volta, è lo sradicamento dell’antifascismo. Bisogna intendere bene il valore, per questa destra, dell’obiettivo di demolire l’antifascismo.

La questione non riguarda il passato, malgrado l’importanza della storia nella conoscenza di chi sei. La questione investe il presente e il futuro. L’antifascismo è l’unica religione civile di questo nostro paese. È un argine, una diga contro la barbarie che invade il tempo presente, un punto di resistenza contro la lingua e la cultura della guerra, una via tracciata per il dialogo, per il riconoscimento dell’altro, quale che sia la natura della sua presenza sulla scena del mondo. L’antifascismo è l’articolo 3 della Costituzione, è l’idea concreta che democrazia e uguaglianza o insieme vivono oppure insieme muoiono. Ora, di fronte alla sfida che questo capitalismo porta direttamente all’uomo che vorrebbe alienato, prigioniero di un individualismo mercantilista, sussunto alla tecnica e ridotto a merce, l’antifascismo, la sua religione civile, continua a parlarci di un’alternativa possibile, quella del “pieno sviluppo della persona umana”.

La destra al governo ha capito che razza di ostacolo è questo fermento al dispiegarsi della controriforma, della controrivoluzione che essa vuol perseguire. Essa, guadagnato il governo, è partita da un elemento difensivo, dalla necessità politico-istituzionale di non lasciarsi definire fascista, a partire dalla presidente del Consiglio, per seguire dal suo governo e della sua parte politica col non lasciarsi chiudere in una ridotta fascista. All’antifascismo però non poteva e non voleva giungere. Ha scelto l’approdo dell’afascismo che gli ha consentito di non fare i conti con il “male assoluto” costituito dal fascismo, secondo la precedente lettura del suo stesso mondo e contemporaneamente di indossare l’abito della festa, quello del governo con il quale stare in Europa e nei rapporti internazionali. Non è bastato per due ragioni. La prima è che se resta viva nel paese una rilevante tendenza antifascista, l’approdo afascista resta precario e instabile.

La seconda è che se l’antifascismo, seppure forse non egemonicamente, resta presente come cultura, come memoria di futuro e viene riacchiappato in esperienze delle nuove generazioni, il disegno, l’ambizione della destra di realizzare la svolta reazionaria che mette fine sia al ciclo lungo della Costituzione, che a quello breve della irrealizzata promessa del 1968-69, trova sabbia e sassi nel suo ingranaggio. Perciò la flotta reale del governo ha bisogno delle navi corsare che vengono messe in acqua per colpire gli obiettivi che non possono essere dichiarati, se non demolendo l’afascismo, l’abito del governo che vuole renderlo presentabile. Così si può consentire il “mordi e fuggi”, ogni volta cercando di colpire un aspetto particolare della lotta antifascista per colpire l’antifascismo. Così si possono lasciar dire cose inaudite come quelle di La Russa, per poi scusarsene e per riprenderne di simili in un’altra situazione e con altri protagonisti.

All’interno di questa operazione può accadere anche che persino la presidente del Consiglio non voglia usare la definizione di antifascisti per le vittime della strage delle Fosse Ardeatine, nascondendosi dietro quella di italiani, scordandosi che, certo lo erano le vittime, ma italiani erano pure i complici di quella terribile rappresaglia, una rappresaglia inumana, una rappresaglia nazifascista. Quel che va inteso, dunque, è che non siamo di fronte ad errori, a incidenti di percorso ma a una strategia ispirata dallo stesso governo delle destre. È venuto il tempo di dar vita a una grande battaglia delle idee per un nuovo orizzonte dell’antifascismo. In un altro tornante cruciale dell’Italia repubblicana, agli inizi degli anni Sessanta, nacque un movimento di giovani che si chiamò Nuova Resistenza. Qualcosa bisognerà fare. C’è bisogno dell’indignazione, c’è bisogno delle mobilitazioni e c’è bisogno della politica, della grande politica, di una politica che ritrovi e si riconcili con il suo popolo. Il 25 aprile è vicino.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.