Quando, dopo una lunga trafila di rimpalli e scaricabarile, gli ufficiali americani Maxwell Taylor e William Gardiner riuscirono a parlare direttamente col capo del governo italiano Pietro Badoglio, nella notte del 7 settembre, rimasero di stucco. Erano stati inviati direttamente dal capo delle Forze armate alleate Eisenhower, avevano raggiunto travestiti la Capitale per mettere a punto i dettagli del Piano Giant-2. Nell’agenda di Eisenhower, il giorno seguente Badoglio avrebbe dovuto annunciare l’armistizio e il 9 settembre gli alleati sarebbero sbarcati a Salerno. Era prevista la difesa di Roma da parte dell’esercito italiano, che sopravanzava per numero le truppe tedesche nella misura di 3 a 1, al quale si sarebbe aggiunta una divisione americana paracadutata. Il Giant-2 prevedeva il lancio della divisione su quattro aeroporti intorno a Roma: Cerveteri, Furbara, Centocelle e Guidonia.

Si può immaginare lo sbigottimento dei due ufficiali quando Badoglio, buttato letteralmente giù dal letto e non senza fatica alle 2 del mattino, rispose candidamente che le truppe italiane non avrebbero potuto resistere ai tedeschi più di 6 ore e anzi dettò un radiogramma per chiedere la sospensione di Giant-2 e il rinvio dell’annuncio dell’armistizio. Eisenhower, su tutte le furie, cassò la seconda richiesta ma fu costretto ad accettare la prima. Badoglio e i vertici militari non avevano fatto niente per preparare la difesa della Capitale. Inviare i paracadutisti avrebbe voluto dire mandarli al massacro. Se avesse assistito a quella surreale scena, il feldmaresciallo Kesselring, acquartierato a Frascati, sarebbe stato non meno stupito dei due americani. La Wehrmacht considerava Roma persa. I piani per l’occupazione dell’Italia settentrionale prevedevano a quel punto di attestare la prima linea a nord di Roma. Persino Hitler e Goebbels si erano rassegnati. Il dottore e maestro della propaganda nazista, nei suoi diari, pur lamentando il dolore per dover cedere Roma, cercava di riconsolarsi facendo di necessità virtù e spiegando a se stesso che occupare la città eterna avrebbe voluto dire restare con i fianchi troppo esposti. Sin dalla mattina del 9 Kesselring cercò qualcuno con cui trattare senza trovarlo per ore. Il re e Badoglio, con 20 dignitari al seguito, erano scappati all’alba. Quasi nelle stesse ore, alle 5.15, il generale Roatta ordinava di spostare le difese all’altezza di Tivoli abbandonando la Capitale. A Roma non c’era nessuno con cui il feldmaresciallo potesse trattare anche se il maresciallo Caviglia, autonominatosi “supplente del capo del governo ”in quanto più alto in grado tra i militari rimasti nella città, diramò un comunicato radio per assicurare che “la città è tranquilla e si sta trattando con le autorità tedesche”.

Di tranquillo, a Roma, in quel momento non c’era niente. Persino San Pietro aveva serrato per la prima volta le porte della basilica e le guardie svizzere avevano sostituito le picche con le armi da fuoco. La paura di una irruzione tedesca contro quella che Hitler aveva definito “una banda di porci” era diffusa e non infondata. Nella città la battaglia era iniziata già alle 22 dell’8 settembre. Paracadutisti e granatieri di Sardegna avevano aperto il fuoco sui tedeschi che cercavano di passare il ponte della Magliana per occupare Ostiense. La mattina del 9 la sola cosa che infuriava più della battaglia era il caos. Correvano voci di ogni tipo. Molti pensavano che i colpi di cannone indicassero che gli Alleati erano alle porte. La gente affollava strade e ristoranti, qualcuno sparava con le armi che era riuscito a recuperare, molti assistevano da finestre e balconi. Il generale Carboni, comandante del corpo motocorazzato a difesa di Roma, annunciò che avrebbe armato i civili e lo fece davvero, ma con poche armi e fucili di mezzo secolo prima. Il futuro partigiano e attentatore di via Rasella Sasà Bentivegna riuscì ad armarsi solo di un coltellaccio. La sua futura compagna nell’azione di via Rasella Carla Capponi, una delle non poche donne che parteciparono alla difesa, neppure quello. In compenso estrasse da sola e si portò via a spalla da un blindato un militare ferito: in quella giornata di sangue i feriti venivano finiti sul posto dai tedeschi.

Alcune migliaia di persone tra cui Sandro Pertini, il sindacalista Bruno Buozzi, Emilio Lussu, Giuliano Vassalli, Adriano Ossicini accorsero per spalleggiare paracadutisti e granatieri a Porta San Paolo. La battaglia infuriò per due giorni intorno alla Piramide di Caio Cestio, all’imbocco di via Marmorata. Di fronte alla basilica di San Paolo era stato allestito un ospedale da campo, ma scontri e granate piovvero anche su piazza di Spagna, sulle vie del centro, sulla città, traversata dalle autoblindo degli uni e degli altri senza che neppure i militari al loro interno capissero bene cosa stava succedendo. Non era una battaglia ordinata e da manuale. “E’ come nella pellicola di Stalingrado”, commentava Guttuso dopo aver combattuto intorno alla Piramide. “Si respirava un’aria di quarantotto, di Repubblica romana, borghesi armati e animosi, operai, artisti, studenti, mischiati a soldati di gran cuore”, racconterà in seguito lo scrittore Paolo Monelli. Nelle strade all’inizio regnava l’ottimismo, i tedeschi erano descritti come in fuga o prigionieri, gli stessi soldati che, senza nessuno a guidarli, accorrevano verso l’epicentro degli scontri si mostravano sicuri. Ma Monelli, nel suo straordinario libro-reportage scritto nel 1945 Roma 1943, enumera i segnali di senso opposto. I ministeri erano vuoti, nessuno rispondeva ai telefoni, nelle caserme e a palazzo Chigi, allora sede del ministero degli Esteri, si bruciavano in tutta fretta carte e archivi.

La battaglia proseguì sino al pomeriggio del 10 settembre con sparatorie e lanci di bombe e granate un po’ ovunque. Alle 16 la resa fu firmata dal tenente colonnello Giaccone e dal capo di Stato maggiore di Kesselring. Gruppi di granatieri e civili scelsero di opporre un’estrema resistenza, ancora per qualche ora, a porta San Giovanni, adoperando autobus come barricate. L’ultimo scontro fu in piazza dei Cinquecento, dove i tedeschi e i fascisti che avevano combattuto al loro fianco sin dall’inizio avevano occupato l’Hotel Continental. Gruppi di giovani spararono e lanciarono bombe verso l’albergo, venendo falciati dalle mitragliatrici piazzate alle finestre. Furono le ultime vittime di una battaglia costata in tre giorni 1.167 morti tra cui 638 Granatieri di Sardegna, la formazione militare che aveva sostenuto da sola con i paracadutisti lo scontro, e 183 civili incluse 27donne. Alla vigilia della battaglia Kesselring aveva chiesto all’italianista delle SS, Dolmann, se si dovesse temere un’insurrezione degli abitanti della città. “I romani non amano né alzarsi al mattino né sollevarsi contro il nemico”, era stata la sprezzante risposta. La battaglia di Porta San Paolo, combattuta da militari senza comandanti a fianco di comunisti, socialisti, democristiani, azionisti dimostrò che non era davvero sempre questa la realtà. Per questo accese la miccia della Resistenza.