La memoria
La storia dell’attentato di via Rasella, l’agguato della Resistenza contro il battaglione Bozen e la vendetta nazista
Alle ore 15 circa del 23 marzo 1944 scoppia una bomba in Via Rasella a Roma. La potenza del fuoco investe l’11esima compagnia del I battaglione del Reggimento di Polizia tedesca (Polizeiregiment) Bozen – un reparto militare della Ordnungspolzei (polizia d’ordine) creato a Bolzano, in Alto Adige, nell’autunno 1943 durante l’occupazione tedesca della regione -, che transita a piedi. Dei 156 uomini di cui era formata la truppa tra coscritti altoatesini e ufficiali e sottufficiali della Germania nazista, 33 militari rimangono uccisi (di cui 6 civili italiani) altri 9 tedeschi nei giorni successivi e un centinaio circa furono i feriti. L’attentato darà origine il giorno seguente alla rappresaglia tedesca: l’eccidio delle Fosse Ardeatine in cui verranno fucilati 335 prigionieri alla cui esecuzione i sopravvissuti della compagnia attaccata non parteciparono, nonostante in base alla consuetudine militare germanica spettasse a loro “vendicare” i commilitoni caduti.
Alcuni partigiani che appartenevano alle Brigate Garibaldi, organizzate dal Partito Comunista italiano allora fuorilegge, notarono che un grosso gruppo di soldati tedeschi percorreva quasi ogni giorno alcune strette strade nel centro di Roma. Si trattava degli uomini del battaglione Bozen. La regolarità del loro percorso, i ranghi compatti in cui marciavano e le strette strade che percorrevano rendevano il gruppo un bersaglio ideale per un’azione di guerriglia. Il luogo scelto per l’attacco fu via Rasella, una parallela di via del Tritone. In un bidone della spazzatura vennero sistemate alcune cariche di esplosivo, mentre un gruppo di partigiani si appostò nelle vie vicine per attaccare i tedeschi dopo le esplosioni. Uno studente di medicina, Rosario Bentivegna, 21 anni, travestito da spazzino, sistemò il bidone nella strada. Seppur con lieve ritardo rispetto all’orario previsto, i soldati tedeschi comparvero in fondo alla strada. Un altro partigiano, Franco Calamandrei, diede il segnale levandosi il cappello. Bentivegna accese la miccia dell’esplosivo e si allontanò. Un’altra partigiana, Carla Cappone, lo aspettava poco distante: lo coprì con un impermeabile per nascondere l’uniforme da spazzino e si allontanò insieme a lui. La forza dell’esplosione non riuscì a sfogarsi e fu concentrata nei pochi metri della strada. L’intera compagnia venne praticamente spazzata via. Anche due civili morirono nell’esplosione, mentre altri quattro furono uccisi nella sparatoria con cui i tedeschi reagirono all’esplosione.
L’attentato di via Rasella fu l’azione più efficace portata avanti dai Gap a Roma con un’esecuzione “quasi perfetta”. Quando gli venne comunicata la notizia dell’attacco, Adolf Hitler chiese una punizione esemplare: cinquanta italiani avrebbero dovuto essere fucilati per ognuno dei soldati tedeschi morti nell’attentato. L’esercito tedesco – come quello italiano quando aveva occupato la Grecia e la Jugoslavia – aveva da sempre praticato la tattica della rappresaglia. Albert Kesselring, il comandante dell’esercito tedesco in Italia, si oppose insieme a molti degli altri ufficiali e riuscì a persuadere Hitler ad abbassare le sue richieste. Venne deciso che dieci italiani sarebbero stati uccisi per ognuno dei tedeschi morti nell’attentato. Dal pomeriggio del 23 marzo Herbert Kappler, ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca di Roma, iniziò a cercare più di trecento ostaggi da fucilare. Vennero radunati tutti gli ebrei che non erano ancora stati deportati, i detenuti nelle carceri già condannati a morte e all’ergastolo e i pochi prigionieri della resistenza che erano stati arrestati. I numeri però non tornavano: mancavano ancora decine di ostaggi. In più, nel corso della notte e della mattina successiva, altri due soldati tedeschi morirono per le ferite, portando il numero totale di ostaggi da trovare a trecento.
I tedeschi chiesero aiuto alle autorità italiane che dipendevano dalla Repubblica di Salò, lo stato fantoccio creato da Benito Mussolini nel nord Italia. Il questore di Roma si recò allora dal ministro degli Interni, Guido Buffarini-Guidi che, per caso, si trovava a Roma. Svegliandolo la mattina nel suo albergo gli disse delle richieste dei tedeschi e Buffarini-Guidi, preoccupato, gli rispose “Sì, sì, dateglieli! Altrimenti chissà cosa potrebbe succedere!”. Alla fine, mettendo insieme anche i nomi di presunti oppositori al regime, comunisti ed ebrei (alcuni forniti da Pietro Koch, capo di una delle numerose bande armate e milizie più o meno ufficiali di Salò) Kappler riuscì a riempire la sua lista di 335 persone. Nella foga di rintracciare un numero sufficiente di ostaggi, erano finite nella lista cinque persone in più del necessario.
Il maggiore Helmuth Dobbrick, il comandante della compagnia che era stata attaccata, venne convocato e gli fu detto che i suoi uomini avevano diritto a portare avanti la rappresaglia. Il comandante si rifiutò, dicendo che i suoi uomini, per motivi religiosi, non avrebbero potuto compiere le esecuzioni. Nelle ore successive il compito venne rifiutato da quasi tutti gli altri reparti a cui venne richiesto e anche gli uomini dell’esercito regolare si rifiutarono di compiere le esecuzioni. Alla fine venne deciso che sarebbero state le SS di Kappler a compiere la strage. I prigionieri vennero portati poco fuori Roma, in una serie di cave che Kappler aveva ispezionato in passato alla ricerca di rifugi anti-aerei. Cinque alla volta i prigionieri vennero condotti all’interno e uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Kappler stesso eseguì personalmente numerose esecuzioni, aiutato dai suoi ufficiali, tra cui anche il capitano Erich Priebke. Per tutta la giornata le SS andarono avanti con le esecuzioni e vennero distribuite razioni extra di cognac per tenere alto il morale. La sera del 24 marzo tutti gli ostaggi erano stati uccisi e le grotte della cava vennero fatte esplodere. Kappler venne arrestato alla fine della guerra e condannato per l’eccidio del 24 marzo, per la deportazione degli ebrei di Roma e per altri crimini di guerra (riuscì a fuggire dal carcere nel 1977 e morì in Germania due anni più tardi). Anche Priebke riuscì a fuggire: si scoprì che era in Argentina soltanto nel 1994. Nel 1995 venne estradato in Italia e nel 1998 condannato all’ergastolo.
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