Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, con la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del suo omologo Hossein Amir Abdollahian, Mosca perde dei “veri amici” che hanno fornito “un enorme contributo alla cooperazione bilaterale e allo sviluppo”. E Vladimir Putin, non appena ricevuta la conferma della morte di Raisi, ha chiamato il presidente ad interim Mohammad Mokhber per confermare l’asse tra Iran e Russia. Da Pechino, il presidente Xi Jinping ha espresso piena solidarietà definendo la scomparsa di Raisi come “una grande perdita per il popolo iraniano”.

La Siria di Bashar al Assad ha proclamato tre giorni di lutto nazionale. La stessa decisione l’ha presa il governo del Libano. In Iraq si rispetterà un giorno di lutto. E pure l’India ha preso la stessa decisione. La morte di Raisi e di Amir-Abdollahian scatena la gara di solidarietà degli alleati di Teheran. Partner vecchi e nuovi hanno espresso le loro condoglianze alla Repubblica islamica, arrivate anche dai Paesi occidentali. Ma è soprattutto nelle reazioni del sistema di alleanze che si manifesta il lascito di queste due figure scomparse nell’incidente di domenica. Raisi e Amir-Abdollahian, coordinati dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, hanno messo in atto una strategia precisa, incentrata su tre pilastri.

Il primo, il mantenimento dei “proxy” in Medio Oriente, dal Libano alla Siria, dall’Iraq allo Yemen. Il secondo, la sfida a Israele e il gioco d’azzardo con il programma nucleare. Il terzo, la svolta verso nord e verso est da parte di Teheran, che ha blindato le partnership strategiche con Cina e Russia e rafforzato anche i rapporti con l’India, alleato fondamentale negli scambi commerciali. Una politica smaccatamente orientale, anche per l’evidente difficoltà di relazionarsi con un Occidente che ha messo al primo posto la risoluzione del nodo del programma nucleare, e che si è riversata, di conseguenza, anche sulle relazioni con i Paesi arabi e del Golfo.

L’Iran dopo gli anni del gelo e della spaccatura, visibili soprattutto durante la guerra in Siria, si è infatti ricollegato ai suoi partner regionali soprattutto nell’ultimo periodo. Complice non solo la necessità di rafforzare gli scambi economici ed evitare l’isolamento dato dalla sua politica e dalle sanzioni, ma anche per la discesa in campo in Medio Oriente della Cina. È stata proprio Pechino a benedire in questi ultimi anni il riavvicinamento tra i due grandi contendenti del mondo musulmano mediorientale: l’Iran e l’Arabia Saudita. E l’anno scorso, a conferma di questa nuova macchina diplomatica di Teheran, Amir-Abdollahian ha visitato gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Kuwait e l’Oman. Un segnale di distensione da non sottovalutare, confermato anche dal messaggio di solidarietà inviato dal presidente emiratino, Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan, per la morte dei due alti funzionari iraniani.

E questo, nonostante l’Iran non abbia mai rinunciato a gestire le milizie della sua costellazione sciita, mantenendo quella macchina strategica in grado di mettere pressione non solo a Israele e gli Stati Uniti, ma anche ai partner regionali. I messaggi arrivati da queste forze sono chiari: dagli Hezbollah agli Houthi passando per le brigate irachene fino a Hamas e Jihad islamico palestinese, tutti hanno manifestato il dolore per la scomparsa di Raisi. E l’impressione degli analisti, è che questa morte, così come quella del ministro degli Esteri, potrebbero non rappresentare una rivoluzione nell’agenda internazionale iraniana. Gli esperti sottolineano che Raisi e Amir-Abdollahian, per quanto importanti, hanno costituito da sempre la longa manus di Khamenei e dei Pasdaran. Ed è da questi due pilastri che Teheran sembra volere necessariamente ripartire. Di certo Mokhber non può rappresentare, nel suo breve periodo ad interim (o nel suo possibile futuro da presidente eletto), un uomo del cambiamento. E finché Khamenei rimarrà al vertice della Repubblica, la politica estera dell’Iran è segnata.