Cancelliamo la riforma Bonafede, la prescrizione non è un diritto delle Procure

La prescrizione del reato, con la riforma entrata in vigore nel gennaio del 2020, è diventata un diritto delle Procure della Repubblica e non più dell’imputato. Il blocco senza termine della prescrizione dopo la sentenza di primo grado produce, così come potenzialmente operativa nel sistema processuale vigente, una fortissima tensione col principio della ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2, Cost. e 6, par. 2, Cedu), ma già ora in diritto genera un conflitto con la natura sostanziale della prescrizione del reato (art. 25 cpv., Cost.).

È presto spiegato perché. La maggior parte dei reati da sempre si prescrive durante le indagini preliminari. Ciò significa che il fenomeno non riguarda i reati più gravi e comunque esprime una scelta delle Procure, che se volessero potrebbero evitare questo esito come del resto fanno per gli illeciti ritenuti in concreto più significativi, per la presenza di persone offese o altre ragioni. Li fanno prescrivere perché non c’è la discrezionalità dell’azione penale, e dunque la prescrizione la sostituisce: di fatto esercitano discrezionalmente l’azione, lasciando prescrivere i reati che più lo “meritano”, mentre quelli più rilevanti sono curati e rinviati a giudizio.

Una volta arrivati a giudizio, dati i tempi lunghi del processo penale in Italia, alcuni di questi reati sono già più a rischio prescrizione di altri, e andrebbero vagliati con maggiore sollecitudine. Tra questi ci sono alcuni reati economici (i colletti bianchi menzionati da tutta la propaganda pentastellata come esempio di disuguaglianza penale), mentre un tempo ciò valeva anche per vari reati contro la pubblica amministrazione, oggi invece messi al riparo dalla prescrizione per effetto di pene assai elevate: n.b. un aumento strumentale a esigenze processuali o di propaganda politica, non di pena maggiore perché meritata dalla persona. Sarebbe dunque logico differenziare scelte processuali e regimi di prescrizione in rapporto alla complessità di accertamento di alcuni delitti.

Peraltro i reati economici richiedono competenze tecniche che i magistrati giudicanti non sempre hanno e ciò forse spiega perché i verdetti di condanna in primo grado vengano spesso sovvertiti nei gradi successivi. In ogni caso il tasso di rigetto delle richieste delle Procure è troppo alto in Italia. Questo vale in generale. Un rinvio a giudizio ha un valore “probatorio” modesto, in vari casi nullo. In Giappone il 99% delle richieste del p.m. si conclude con una condanna. Non sarà un modello, ma da noi esiste un antimodello opposto. Con la riforma Bonafede si è di fatto esaltato il “diritto” del pubblico ministero di continuare a gestire così i processi, senza “intralci” temporali, e senza (per quanto ancora?) una vera responsabilizzazione della figura del Gup, che guarda sommariamente le carte e non decide se vi sia davvero una seria prognosi positiva di responsabilità dell’imputato.

Da vari anni, peraltro, il regime della prescrizione è stato aggravato per numerosi reati; per i recidivi vigono termini più lunghi dal tempo della legge ex-Cirielli del 2005; il regime della sospensione della prescrizione si è sempre più dilatato dopo la riforma Orlando del 2017. Insomma, invece di risolvere in modo mirato alcuni problemi residui relativi a certe tipologie di reato, e soprattutto invece di affrontare prima i tre problemi più gravi del nostro processo: una discrezionalità di fatto, ma mascherata, dell’azione penale; una inconsistente selezione dei reati da portare a giudizio; una lunghezza intollerabile del processo rispetto a ogni parametro europeo e internazionale, il legislatore ha detto alle Procure: le prescrizioni già orientate dalle indagini resteranno nella vostra discrezionalità, mentre gli altri reati non si prescriveranno più dopo la sentenza di primo grado, dovessero i processi durare all’infinito. Una riforma costruita sull’interesse dell’accusa, che tuttavia non coincide con l’interesse dello Stato. Infatti, nel nostro sistema costituzionale la prescrizione è un diritto dell’imputato, non del pubblico ministero.

Non è solo il diritto a una durata ragionevole del processo, ad “accelerarne” la celebrazione per gli stessi reati imprescrittibili, al fine di essere liberati tempestivamente dalla macchina da guerra dell’accusa. È anche il riconoscimento che il potere punitivo, non essendo divino, ma esteso a migliaia di incriminazioni di diversissimo valore sociale, o ha una discrezionalità, o ha un termine. La natura “sostanziale”, e non processuale, della prescrizione nel nostro ordinamento, significa questo: lo Stato, anche se si obbliga all’esercizio dell’azione, considera la risposta penale e i suoi fini di valore relativo rispetto a quello della persona.

In altri sistemi questo scopo è assicurato in parte dall’esercizio discrezionale dell’azione. In sistemi dove l’azione penale resta obbligatoria l’autolimitazione del potere statale segue regole più rigide, di tipo “sostanziale”. Si riconosce alla persona un diritto verso lo Stato: un diritto al limite temporale di un potere che tuttavia appartiene allo Stato, non alle Procure, perché è afflittivo in sé, e non può lasciare la persona per gran parte della sua esistenza in balìa di una minaccia indeterminata di esclusione sociale. Questa limitazione temporale supera il desiderio dell’opinione pubblica di chiedere censure e pene per i tipi d’autore che la ribalta politica, di volta in volta, di governo in governo, ritenesse più meritevoli di attenzione. Solo per i reati più gravi è stabilito che quel potere rimanga illimitato sul piano sostanziale (reati imprescrittibili), ma con vincoli temporali sul piano del processo (sua ragionevole durata).

L’inosservanza di queste premesse di sistema rende irrazionale la riforma del 2020, che sospende senza limiti, sia sostanziali, sia processuali, la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: sul piano processuale, perché sulla carta sembra quanto meno accettare come possibili processi eterni, e soprattutto su quello sostanziale, perché considera la prescrizione come un diritto dell’accusa, come se il processo riguardasse solo reati puniti con l’ergastolo.