Carmine Fotia, per tredici anni al Manifesto, è stato direttore di Italia Radio, la radio dei progressisti. Nel 1996 è vicedirettore del Tg di Tmc, fino alla sua trasformazione in La7. Ha pubblicato con la casa editrice di una intellettuale eclettica come Fabrizia Cusani, la Heraion, “Scusaci Bettino – Craxi, la sinistra, il giustizialismo”.
Hai raccontato Bettino Craxi a partire da un episodio umano, personale. Ce lo vuoi raccontare?
«Incontrai Craxi per l’ultima volta a Hammamet per un’intervista di Tmc nell’ottobre del 1999, qualche giorno prima del suo ricovero in ospedale e la successiva morte nel gennaio del 2000. Avevo seguito il governo Craxi come cronista politico del Manifesto. Lo avevamo criticato per quasi ogni aspetto delle sue scelte politiche ma non lo demonizzammo mai, anzi su alcune battaglie come quella sulla trattativa nel caso Moro e a favore dei dissidenti dell’est fummo insieme. Avevo conosciuto un leader forte e deciso, arrogante persino. Davanti a me c’era ora un uomo fragile, febbricitante. Ma non rassegnato, questo no. Non volle rinviare l’intervista, quasi sentisse un’urgenza di dire. E di difendere il suo onore di socialista, di leader politico, di statista. Fu la sua ultima intervista in tv. Dopo la sua morte, negli anniversari, quell’incontro mi tornava in mente, e così pian piano crebbe in me l’esigenza di capire meglio perché la sinistra nella quale militavo, di Bettino non avesse capito proprio nulla».
Chi è stato Bettino Craxi, con il metro di oggi?
«Se per metro di oggi intendi quello con cui misuriamo la politica attuale, nella quale, salvo rare e preziose eccezioni, domina una razza di ciarlatani trasformisti, di politici pavidi e di demagoghi, la cui natura servile si sta manifestando nella drammatica vicenda dell’Ucraina – sulla cui intransigente difesa si dovrebbe fondare il futuro dell’Europa – direi che è stato un gigante. Fu giovanissimo antifascista influenzato dal padre Vittorio, viceprefetto di Milano dopo la liberazione. Da leader del partito sradicò il Psi dalla sudditanza ai comunisti, in nome dell’autonomia socialista; da capo del governo si comportò da statista, attentissimo a difendere l’Italia dall’imperialismo sovietico con la coraggiosa scelta sugli euromissili ma anche, nel caso di Sigonella, dall’arrogante prepotenza dell’alleato americano».
Le incomprensioni tra Craxi e la sinistra nascono da lontano. Da sempre. Dall’autonomismo nenniano e la diatriba su Proudhon su L’Espresso, in chiave anti-Berlinguer…
«Quel saggio scritto a quattro mani con Luciano Pellicani, nacque in risposta a un’intervista di Berlinguer a Scalfari nella quale il leader del Pci affermava che il suo partito continuava sulla via tracciata da Lenin a predicare la fuoriuscita da capitalismo e che pertanto non sarebbe mai diventato un partito socialdemocratico. Così dopo la drammatica fine del compromesso storico il leader del Pci respingeva una naturale evoluzione che avrebbe finalmente potuto sanare la frattura del ‘21 e portare tutta la sinistra al governo del paese. Craxi rispose con un manifesto politico nel quale, contro l’ortodossia comunista delineava un socialismo liberale, equitativo, moderno e chiamava a raccolta una schiera di intellettuali. Fu in quell’occasione che il mio amatissimo maestro Luigi Pintor, scrisse un editoriale simpatizzante dal titolo: chi ha paura di Bettino Craxi?».
Le frasi di Tatò che riporti nel libro sono ai limiti dell’offensivo nei confronti di Bettino Craxi. Tradiscono un’arroganza, una tracotanza che la sinistra di marca comunista si porta dietro ancora oggi, nelle sue derivazioni e declinazioni…
«Proprio in quel periodo Tonino Tatò, che era l’uomo più vicino a Berlinguer, scrisse nei suoi diari che tutta la segreteria conveniva sul fatto che Craxi fosse un “gangster politico”, avviando così quella sistematica demolizione della figura dell’avversario politico che era un tratto di fabbrica dello stalinismo e che oggi è passato pari pari nelle mani del populismo giustizialista. La sfida di Craxi era tutta politica e aveva dalla sua parte la storia, come dimostra il fatto che gli eredi per Pci, grazie all’intervento di Craxi, entrarono nell’Internazionale Socialista ed oggi il Pd fa parte del Pse».
In Francia ci fu Epinay. In Germania, Bad Godesberg. In Italia, il Midas. Mancò una svolta culturale organica, pensata, strutturata, a sinistra, prima della Bolognina?
«È esattamente quello che voglio dire: come sarebbe cambiata la storia italiana che, ben prima del crollo del muro di Berlino, il Pci avesse riconosciuto che il comunismo era fallito e il sua utopia di un mondo di eguali era diventata l’inferno del totalitarismo sovietico, disumano e crudele? Quella era la sfida che lanciava Craxi. Non avere risposto allora, rifugiandosi in un confuso movimentismo nuovista che tuttora permane ha impedito al Pd di fondarsi su una solida cultura politica, di coltivare una memoria condivisa».
Il tuo libro ha un titolo esplicito: “Scusaci, Bettino”. Per che cosa?
«Per non esserci ribellati al clima di odio contro di lui negli anni di Tangentopoli. Parlo per me e non pretendo di rappresentare nessuno ma, pur non avendo mai partecipato al suo linciaggio, pensavo che sull’onda di Mani Pulite il paese sarebbe cambiato in meglio. Non dimenticare che erano gli anni delle stragi di mafia che avevo seguito da cronista e che mi segnarono profondamente. Ma era sbagliato, perché Mani Pulite si trasformò in una infernale macchina di distruzione della politica e dei partiti e quindi della democrazia repubblicana. Bisognava punire gli illeciti di tutti partiti, nessuno escluso e riformare il sistema, come disse lo stesso Craxi in parlamento, non consegnare alle Procure le chiavi delle istituzioni. E invece si fece proprio questo, con l’abolizione dell’immunità parlamentare che apri la strada a una lunga fase di riforme giustizialiste giunte fino ai giorni nostri con l’abolizione della prescrizione e il selvaggio taglio dei parlamentari che il Pd aveva aspramente combattuto e che invece approvò inchinandosi alla leadership del “punto di riferimento fortissimo” delle forze progressiste, il CamaleConte, come lo chiamava Mario Tronti».
Craxi fu uno straordinario innovatore, un visionario di rottura. I game changer però non vengono mai apprezzati nel loro tempo. Vengono riabilitati dopo qualche tempo. Sei d’accordo?
«Detta così no. In realtà i governi Craxi godettero di un vasto consenso nel paese, dimostrato dalla vittoria nel referendum sulla scala mobile, dall’apprezzamento di personalità come il governatore della Banca d’Italia, Ciampi, dai riconoscimenti internazionali. E anche con il voto non andava male: nel 1987 il Psi aveva conquistato tre punti rispetto al 1983 e ben sei sul 1976. Al contrario, io credo che proprio la vitalità del novo corso socialista e la sua caratura ne uscirono rafforzate. L’errore più grande di Craxi, favorito dal settarismo comunista, fu quello di non avviare allora una coerente strategia Mitterrandiana, rinunciando all’abbraccio con una Dc che aveva abbandonato ogni respiro riformatore».
Le monetine del 30 aprile 1993 segnarono uno spartiacque. Quello che Craxi definì “un atto di squadrismo”. Chi c’era dietro?
«Materialmente organizzò tutto Teodoro Buontempo, deputato del Msi. Fu lui portare le monetine ai militanti del Fuan cui però si unirono anche alcuni militanti della sinistra che stavano manifestando lì vicino. In quella giornata orribile si formò un magma dal quale emerse con forza il mostro giustizialista».
Tu rifletti sulla politica, sulla sinistra. Ci fu però molto altro. Un golpe giudiziario maturato forse in contesti internazionali. Da quegli anni partì lo strapotere delle toghe che vediamo debordare ancora oggi.
«Non condivido il termine “golpe giudiziario” perché se si esagera nei toni si rischia di non dare importanza a quello che già è emerso: un’azione giudiziaria piena di forzature, un uso della carcerazione preventiva come strumento per costringere gli imputati a confessare quel che i Pm volevano, l’ossessione da voler incastrare Craxi a tutti i costi, i drammatici suicidi. Inoltre è vero e confermato da recenti documenti desecretati di recente che gli americani, il fin dal 1991, avevano rapporti con Antonio Di Pietro. Al di là questo, sono d’accordo con il fatto che esiste lo strapotere delle Procure e, da uomo di sinistra, considero la riforma Nordio un passo avanti, che potrebbe essere corretto in meglio se la sinistra attuale non avesse interiorizzato una sorta di servitù volontaria alla potenza giustizialista».
Serve un viatico per ripartire, per restituire dignità alla politica. Tornando al finanziamento pubblico, per esempio?
«Certo dinnanzi all’irrompere dei miliardari in politica occorre che si assicurino per quanto possibile e in modo trasparente risorse a chi vuole fare politica senza avere grandi patrimoni. Ma la dignità della politica tornerà solo quando leader al tempo stesso pragmatici e visionari, torneranno a far risuonare nel cuore delle persone le idee di libertà, giustizia, democrazia, come fa, purtroppo in solitudine il Presidente Sergio Mattarella».
