Censis boccia le università partenopee: il deficit è pure culturale

Sembra un paradosso, invece è la triste realtà: gli atenei napoletani sono bocciati. Impietoso è il giudizio del Censis che, tra le dieci mega-università italiane, colloca la Federico II all’ultimo posto della classifica guidata da Bologna e Padova. Tra i 19 grandi atenei, Luigi Vanvitelli si piazza alla quintultima posizione e non basta la medaglia d’argento per Salerno, capace di scalare ben sei posizioni in un anno, a fare felice la Campania. Tra le 16 università di medie dimensioni, infine, la Parthenope è quartultima mentre l’Orientale occupa addirittura il fondo della classifica, entrambe lontane da Trento e Siena che invece sono ai vertici.

La bocciatura da parte del Censis arriva pochi giorni dopo il rapporto Invalsi, secondo il quale almeno sei diplomati campani su dieci non raggiungono le competenze minime in italiano, matematica e inglese. Messi insieme, questi dati dimostrano quanto il problema della formazione sia evidente soprattutto in tempi di pandemia e didattica a distanza (dad). Anche perché dalla formazione non dipendono solo l’ingresso nel mondo del lavoro, la produzione del reddito e il raggiungimento del benessere, ma anche la consapevolezza dei diritti, la percezione della democrazia e la visione della società che ciascuno di noi possiede.

Non si tratta di una “questione di vile moneta”, o almeno non solo di quella, ma di un problema culturale. Perché una formazione scolastica e universitaria non all’altezza delle grandi ambizioni di Napoli può essere considerata come una medaglia con due facce: la prima è quella di una cultura civile gravemente minacciata dall’ignoranza, la seconda è quella di una cultura politico-amministrativa incapace di comprendere l’importanza di scuole e atenei di alto livello. Anche questo secondo aspetto, purtroppo, è particolarmente evidente in una regione come la Campania, dove il presidente Vincenzo De Luca ha imposto la dad a oltranza, e in una città come Napoli, dove il sindaco Luigi de Magistris ha quasi azzerato i servizi di cui una metropoli con una consolidata vocazione universitaria dovrebbe disporre. Il risultato è che, accanto al deficit di quasi tre miliardi di euro accumulato da Palazzo San Giacomo, si presenta ora un deficit culturale che rischia di mettere una pesante ipoteca sul futuro dei napoletani.

Finora il problema è stato affrontato in modo retorico, demagogico e rivendicazionista. Per molti addetti ai lavori, infatti, basta “inondare” di denaro le università meridionali per rafforzarle e metterle al passo con quelle del Nord. Invece non è così. Bisogna approfondire il rapporto che gli atenei hanno col territorio, elaborare strategie per evitare che strutture come la Apple Academy di San Giovanni a Teduccio rimangano cattedrali nel deserto, garantire i servizi di cui uno studente necessita soprattutto se fuori sede.

Sebbene cruciali per la vita e lo sviluppo della comunità napoletana, questi temi non sono stati sufficientemente approfonditi durante questa prima parte di campagna elettorale. Eppure tra i candidati figura proprio l’ex rettore della Federico II e promotore della Apple Academy. Sarebbe il caso, quindi, che i candidati formulassero delle proposte e magari invocassero un secondo patto per Napoli, dopo quello per salvare il Comune dal crac: non solo più risorse per gli atenei partenopei, ma una strategia in grado di rendere più equilibrato e fecondo il rapporto tra le università e la città.