Uno studente del Nord, iscritto a un corso di laurea in Medicina in un’università non statale, può detrarre dalle tasse o dai contributi di iscrizione fino a 3mila e 700 euro. Un suo collega residente in una regione del Centro, invece, può recuperare un massimo di 2mila e 900 euro. E un giovane del Sud? Per quest’ultimo, magari rampollo di una famiglia disagiata e originario di un territorio economicamente depresso, lo sgravio non va oltre mille e 800 euro. Una sperequazione messa nero su bianco nel decreto ministeriale 942 che Gaetano Manfredi ha firmato il 30 dicembre scorso, nelle vesti di ministro dell’Università nel governo Conte 2, e contro la quale si è scatenata la protesta di Napoli Capitale.
Capitanati dall’ex europarlamentare Enzo Rivellini, gli attivisti hanno manifestato prima della conferenza stampa di presentazione della candidatura di Manfredi a sindaco di Napoli, puntando il dito contro quello che ritengono «un decreto palesemente discriminatorio». Napoli Capitale ha poi chiesto allo stesso Manfredi, in passato anche rettore della Federico II, al suo successore Matteo Lorito, all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al candidato di centrodestra Catello Maresca un impegno affinché quel provvedimento venga al più presto modificato.E il primo sì in tal senso è arrivato proprio da Manfredi che ha per certi versi “sconfessato” il decreto firmato non più tardi di sei mesi fa: «La detrazione differenziata per le spese sostenute per l’iscrizione a università non statali rientra in un quadro fiscale datato – ha scritto l’ex ministro in una lettera a Napoli Capitale – Bisogna garantire il massimo accesso alla formazione universitaria, attraverso un regime fiscale equo che non rappresenti per nessun giovane, specie al Mezzogiorno, un ostacolo ai propri progetti di studio e ai propri sogni». Ma di che cosa si parla esattamente?  Il decreto 942 altro non è che il provvedimento con cui annualmente, in base al Testo unico sulle imposte sui redditi datato 1986, il ministro individua i cosiddetti massimali per gli studenti iscritti a università non statali. Il decreto, dunque, definisce la cifra massima di tasse e contributi per l’iscrizione ai corsi che il singolo studente può detrarre dall’imposta lorda sui redditi per ciascuna area di afferenza disciplinare e zona geografica in cui l’ateneo ha sede. E così succede, per esempio, che un giovane lombardo iscritto a una facoltà umanistica di un’università privata possa “scaricare” fino a 2mila e 800 euro, mentre questo importo scende a 2mila e 300 e mille e 500 euro nel caso di un suo coetaneo originario rispettivamente delle Marche o della Campania.

È accettabile che uno studente meridionale debba beneficiare di sgravi che, in alcuni casi, non raggiungono nemmeno la metà di quelli previsti per gli iscritti a università non statali del Nord? È ammissibile che, proprio mentre l’Europa vincola la concessione di fondi per centinaia di miliardi alla riduzione del divario tra le diverse aree del nostro Paese, si continui ad alimentare  le sperequazioni tra atenei, famiglie e studenti? Ed è giustificabile che un simile provvedimento sia stato adottato da un governo guidato da un meridionale come Conte e del quale facevano parte due napoletani come Luigi Di Maio e lo stesso Manfredi? Per Napoli Capitale la risposta è no ed è sicuramente un segnale positivo il fatto che ora Manfredi definisca «discriminatori» i massimali individuati nel decreto e si impegni a farli modificare. Ma il tema merita un approfondimento.

«La ragione della disparità – spiega Lucio d’Alessandro, rettore di un’università non statale come la Suor Orsola Benincasa di Napoli e per anni vicepresidente della Crui – risiede nel fatto che le tasse da pagare siano molto più alte negli atenei non statali rispetto a quelli statali. In più, il decreto considera la media delle tasse pagate dagli iscritti alle università in un dato territorio». Insomma, in Lombardia si detrae di più perché si paga di più, mentre in Campania si detrae di meno perché si paga di meno. Le cifre indicate nel decreto 942, comunque, sono e restano la spia di un Paese estremamente diseguale: «Certo – aggiunge d’Alessandro – perché il presupposto di un simile provvedimento è la differenza tra il reddito medio registrato al Nord e quello fatto segnare dal Sud. In altre parole, quel decreto è l’effetto di un’Italia “scombinata”».

E allora come si corregge una disparità che rischia di pregiudicare il futuro di tanti giovani meridionali? La sperequazione non dipende soltanto dalla differente quantità di fondi assegnata alle università statali e a quelle non statali, ma soprattutto dalle caratteristiche di un territorio: se le banche e le istituzioni pubbliche sostengono gli atenei, questi ultimi riescono a catalizzare l’attenzione e la fiducia di studenti e famiglie riuscendo poi ad accedere a finanziamenti statali più sostanziosi. «Le soluzioni sono due – conclude d’Alessandro – O si stimola l’economia del territorio o si concedono alle università più risorse. In questo secondo caso, però, il finanziamento delle università meridionali va rafforzato attraverso fondi perequativi e creando, intorno a quegli stessi atenei, poli di eccellenza in ambiti formativi e settori economici di rilevanza strategica. Se si operasse in questo modo, il rilancio della Campania, che vanta ben sette università sul proprio territorio, sarebbe finalmente a portata di mano».

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.