Le professioni mediche sono un percorso di studio sempre ambito da tanti diplomati che si affacciano alle porte dell’università. I dati, da poco diffusi sui principali portali, raccontano di più di 58mila giovani che ancora sognano di potere pronunziare un giorno il giuramento di Ippocrate. Di questi, però, solo il 22% riuscirà a coronare il sogno inseguito con non poca fatica (e spesso anche costi, sostenuti per corsi di preparazione). Da anni si fa un gran parlare dell’abolizione del numero chiuso per le professioni mediche con tante e ragionevoli motivazioni a supporto delle opposte fazioni. Di recente anche il Movimento Cinque Stelle, non contento dell’abolizione per decreto della povertà, delle buche a Roma e del bollo auto, ha dedicato la sua attenzione all’abolizione del numero chiuso a Medicina. Certo è che l’emergenza Covid ha portato alla luce la carenza di medici che caratterizza il nostro Paese. Siccome, però, sono già tanti quelli che si sono occupati, si occupano e probabilmente si occuperanno della questione del numero chiuso, voglio qui sottolineare le differenze territoriali che l’analisi dei dati di quest’anno permette di evidenziare.

L’emergenza Covid ha infatti richiesto una diversa organizzazione dei test di ingresso: mentre in passato gli studenti dovevano sostenere la prova nella sede in cui ambivano a iscriversi, quindi anche lontano da casa, quest’anno, nel tentativo di ridurre al minimo i rischi di contagio, la sede in cui ciascuno studente ha svolto il test è quella più vicina al luogo di residenza. Questa diversa organizzazione permette di calcolare i tassi di successo per ciascuna delle sedi universitarie che ha ospitato i test il 3 settembre scorso. Si tratta cioè delle percentuali di studenti che in ciascuna sede hanno superato il punteggio necessario per immatricolarsi in un corso di Medicina e/o Odontoiatria.

Il risultato, in parte prevedibile, mostra però disparità territoriali tanto accentuate da richiedere qualche riflessione e spostare l’attenzione di chi ci governa a questioni ben più importanti del dilemma numero chiuso sì o numero chiuso no. I dati mostrano infatti una netta differenza nelle percentuali di successo al test in funzione della zona geografica di residenza. Accorpando le sedi universitarie nelle tre macro-aree Nord, Centro e Sud-isole, è evidente il forte distacco (circa 10 punti percentuali) tra le sedi del Nord e quelle delle altre due zone della Penisola. Nelle sedi del Nord, il 28,5% degli aspiranti medici riesce a superare la soglia necessaria per iniziare il percorso di studio, mentre le percentuali si attestano al 19,5% per le sedi del Centro e al 17,7% per quelle del Sud e delle isole. Queste differenze riflettono in parte i risultati dei test Invalsi, che evidenziano una disparità territoriale nei rendimenti scolastici.

La scomposizione dei risultati per singola sede è però ancora più inclemente: si passa infatti da una percentuale di successo del 37,5% per gli studenti che hanno sostenuto il test a Bergamo, al 13,5% per quelli che lo hanno sostenuto a Reggio Calabria. Se si analizza il grafico che riporta le percentuali di ammessi per singola sede, non si può evitare di soffermarsi sulla forte concentrazione delle sedi del Nord nella parte alta della classifica e di quelle del Centro e Sud-isole nella parte bassa. Il grafico si commenta da solo e non credo siano necessari molti dettagli. Se si aggregano i risultati degli studenti che hanno sostenuto il test nelle quattro sedi campane (Napoli Federico II, Università Luigi Vanvitelli, Università del Sannio e Università di Salerno, in rigoroso ordine di posizione) si ottiene un tasso di successo pari al 18,5%, ben lontano dal 30% ottenuto sia dagli studenti che hanno svolto il test in un’università del Veneto (InsubriaVarese, Padova e Verona) che in un’università della Lombardia (Bergamo, Milano Statale, Milano Bicocca, Brescia e Pavia). Ancora più basso è il risultato degli studenti che hanno svolto il test in un’università del Lazio (Roma Sapienza, Tuscia, Roma Tor-Vergata e Cassino), che hanno ottenuto un tasso di successo aggregato pari al 16,8%. Fanalino di coda è la regione Calabria, dove solo il 14,5% degli studenti che hanno sostenuto il test in una delle sedi contemplate (Catanzaro, Calabria e Reggio Calabria) è riuscito a superare la soglia di ingresso.

A queste considerazioni va aggiunto il sempre più comune fenomeno di migrazione universitaria che interessa le università meridionali: stando ad alcune analisi curate dalla Svimez per il 2018, uno studente su quattro si è spostato al Nord per iscriversi all’università. Tenendo conto che le soglie di accesso alle università per le professioni mediche variano da sede a sede in funzione del numero di domande e del numero di posti disponibili, non è azzardato ipotizzare un ulteriore impoverimento del territorio meridionale. Anche se non si tratta di un’equazione certa, gli studenti più preparati per il test avranno maggiori possibilità di scelta e, poiché le sedi del Nord storicamente richiedono delle soglie di accesso più elevate, è logico prevedere questo effetto addizionale di impoverimento del territorio. Un’analisi più approfondita richiederebbe di considerare gli istituti scolastici di provenienza (licei, istituti tecnici e istituti professionali), dati al momento non disponibili. Le differenze nella qualità delle scuole (dove i dati Invalsi confermano la disparità territoriale), possono invece essere facilmente incrociati con le differenze di reddito, notoriamente legate alla zona geografica.

Inutile dire che il reddito è un fattore importante, soprattutto se si considerano i tanti corsi disponibili per la preparazione al test di ingresso, molti dei quali con costi che non tutte le famiglie possono affrontare. Per rendersene conto basta infatti cercare “preparazione test medicina” su un qualunque motore di ricerca. Oltre alle sacrosante attenzioni a differenze di genere, razza, gusti sessuali e chi più ne ha più ne metta, sarebbe il caso che i nostri politici ritornino a prestare la necessaria attenzione alla questione delle differenze territoriali, questione sempre più presente sulle colonne dei giornali ma sempre più assente nei programmi politici. Altrimenti si rischia, come capita allo sciocco con evidenti problemi di miopia, di concentrarsi a guardare il dito (abolizione del numero chiuso) piuttosto che la luna (assicurare uguali possibilità a tutti, indipendentemente da dove si è nati).