Nuovi fronti
Che cos’è la guerra cognitiva e perché l’Italia è l’obiettivo numero uno: la sfida alla democrazia liberale
La guerra cognitiva rappresenta la più insidiosa mutazione della conflittualità contemporanea. Non si combatte più soltanto con eserciti convenzionali o con armi tecnologiche, ma con la manipolazione sistematica delle percezioni, delle emozioni e delle convinzioni di intere popolazioni. È una guerra silenziosa, ma non meno devastante: non rade al suolo città e infrastrutture, bensì mina le fonda menta della fiducia collettiva, erode la capacità di discernimento, corrompe la distinzione tra vero e falso, tra legittimo e illegittimo.
1. CHE COS’È LA GUERRA COGNITIVA
In questa forma di conflitto il bersaglio non è il territorio ma la coscienza dei cittadini. È qui che si gioca la partita decisiva: nello spazio interiore delle opinioni, nelle piattaforme digitali dove le informazioni circolano, nei media che selezionano immagini e parole, nei circuiti della memoria storica. La guerra cognitiva è un attacco diretto al tessuto mentale della democrazia. Il suo pericolo principale consiste nell’asimmetria. Gli attori autoritari possono censurare all’interno e manipolare all’esterno, coordinando con efficacia le proprie campagne. Le democrazie, vincolate dal rispetto dei diritti e del pluralismo, non possono rispondere con gli stessi metodi senza tradire sé stesse. È in questa vulnerabilità strutturale che la guerra cognitiva affonda le radici: essa sfrutta la libertà per inoculare il caos, utilizza il pluralismo per moltiplicare la divisione, si serve della stessa empatia per convertire la compassione in odio selettivo.
Questa guerra non ha un’unica cabina di regia, ma più centri che si sovrappongono e si sfruttano reciprocamente. Russia, Cina, Iran, movimenti islamisti, e una galassia di attori ibridi – ideologici, criminali, tecnologici – non agiscono sempre in accordo, ma convergono nel minare le democrazie occidentali. Non è necessario che siano alleati: basta che operino in parallelo per produrre effetti cumulativi. L’esito è un’ondata permanente di sfiducia, di polarizzazione, di delegittimazione delle regole comuni. La posta in gioco non è una semplice disputa di opinioni: è la capacità delle democrazie di sopravvivere a sé stesse. La guerra cognitiva, se non riconosciuta e contrastata, può portare al logoramento irreversibile dei sistemi liberali dall’interno, senza che un solo colpo di arma da fuoco sia sparato.
2. ITALIA OBIETTIVO NUMERO UNO
Se esiste un Paese europeo che riassume in sé le ragioni della vulnerabilità e insieme della centralità, questo Paese è l’Italia. La nostra storia e la nostra posizione ci rendono un bersaglio primario della guerra cognitiva. L’Italia è l’ottava economia del mondo, tra i cinque paesi più visitati e con un capitale intellettuale riconosciuto a livello globale. È, per eccellenza, uno Stato-influencer: ciò che accade nel dibattito italiano, ciò che viene scritto nei nostri giornali, affermato dai nostri intellettuali, espresso dai nostri artisti, è letto e discusso a livello internazionale. Conquistare la narrazione italiana significa ottenere una cassa di risonanza planetaria.
Siamo anche una democrazia stabile, oggi guidata da un esecutivo riconosciuto e autorevole. Giorgia Meloni è divenuta una delle leader più conosciute al mondo, capace di estendere la sfera d’influenza italiana a quadranti finora distanti: dall’India al Sud America, passando per l’Africa. Questa centralità, sommata al ruolo cruciale dell’Italia dentro l’Unione Europea e al peso del gruppo ECR nel Parlamento europeo, fa di Roma un asset strategico per chiunque voglia condizionare gli equilibri del continente. Non sorprende che la guerra cognitiva cerchi di insinuarsi non tanto nei vertici governativi – impermeabili e saldamente atlantisti – quanto nel corpo sociale e nelle fratture interne della maggioranza e dei decisori pubblici.
C’è, inoltre, la storia italiana dei movimenti di massa: il fascismo come primo totalitarismo del Novecento, il più grande Partito comunista dell’Occidente, il movimento cattolico democratico, fino al berlusconismo degli anni Novanta, in cui élite e populismo si sono sovrapposti inaugurando un nuovo modello. Tangentopoli ha sgretolato il senso di responsabilità individuale, e i Cinque Stelle hanno costruito un paradigma di antipolitica capace di delegittimare in blocco la sfera istituzionale. È in questo laboratorio che la guerra cognitiva trova terreno fertile. Dal Covid in avanti, la permeabilità italiana si è manifestata con forza. Filoni filoputinisti, nostalgie sindacali, manifestazioni pro-Hamas hanno mostrato quanto la società italiana sia esposta a narrative esterne. La nostra empatia naturale, unita a una scarsa abitudine alla resilienza collettiva, ci rende più vulnerabili rispetto ad altre società europee più disciplinate e coese. L’Italia è, dunque, il terreno ideale per operazioni di influenza: perché ciò che accade qui si riflette nel mondo, perché siamo il perno politico dell’Europa, e perché la nostra storia di polarizzazioni e la nostra struttura sociale ci rendono un laboratorio dove gli “agenti del caos” trovano facile accesso.
3. ANTISEMITISMO PRIMA LEVA PER DESTABILIZZARE
Fra tutte le narrazioni tossiche della guerra cognitiva, l’antisemitismo occupa un posto centrale. Non è un odio come gli altri: è il più antico, il più adattabile, il più trasversale. Funziona come un reagente chimico che, mescolato a contesti diversi, produce sempre lo stesso risultato: divisione, radicalizzazione, discredito delle istituzioni democratiche. La sua efficacia risiede in tre fattori.
Primo, l’antisemitismo è radicato nella memoria europea: è il punto sensibile su cui si è ricostruita la nostra identità costituzionale. Colpirlo significa colpire la promessa del “mai più” che ha dato legittimità morale all’Europa del dopoguerra. Secondo, esso si presta a infinite metamorfosi: dal complottismo “giudaico-massonico” diffuso dall’ultradestra e da retaggi russi, all’odio jihadista alimentato da retoriche islamiste, fino alla versione “umanitaria” di un antisionismo che finisce per delegittimare il diritto all’esistenza di Israele. Terzo, la sua duttilità lo rende condivisibile da comunità ideologicamente opposte, che trovano in quell’odio un terreno comune.
Durante il Covid si sono posizionati, sottotraccia, 8.000 profili principalmente attivati su Facebook e TikTok. Per i primi due anni non hanno mai parlato di Medio Oriente: si sono insediati come interlocutori affidabili di comunità innocue — gruppi di calcio, cucina, turismo e diritti delle donne. Poi, simultaneamente, dal 7 ottobre 2023, come ha potuto rilevare l’intelligence di un Paese coinvolto, questo esercito “in sonno” ha iniziato a diffondere, mescolandoli sapientemente con altri contenuti, messaggi a crescente carica antisemita. Il “pericolo sionista” e i presunti “crimini di Israele” sono diventati parte del menù quotidiano, somministrato da abili cuochi digitali che, dopo essersi introdotti nelle case degli italiani come amici, hanno rivelato la loro natura di cavallo di Troia cognitivo.
L’antisemitismo diventa così una leva di destabilizzazione. Non serve a colpire solo gli ebrei, ma a generare diffidenza verso lo Stato, a delegittimare le alleanze internazionali, a erodere la fiducia tra cittadini. Quando un Paese tollera o normalizza l’antisemitismo, invia un messaggio implicito: che la legge e la dignità non valgono per tutti, che i diritti possono essere negoziati. È esattamente questo il messaggio che gli attori ostili vogliono far passare, perché mina la coesione interna e apre spazi di intervento esterno. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un fenomeno inquietante: l’antisemitismo ha trovato nuova linfa nelle piattaforme digitali. Durante la pandemia di Covid-19, TikTok è diventato un acceleratore di contenuti ostili, unendo retoriche complottiste su poteri occulti con vecchi stereotipi antiebraici. Nel 2021, prima ancora della guerra di Gaza, studi internazionali hanno registrato un’esplosione di contenuti antisemiti sulla piattaforma. Da allora, ogni crisi ha offerto nuove occasioni per rilanciare quel linguaggio: dal 7 ottobre 2023 alle piazze europee, fino agli episodi più recenti di scapegoating e violenza simbolica contro gli ebrei.
L’antisemitismo, in altre parole, è la chiave di volta della guerra cognitiva: il cavallo di Troia che apre le porte al caos, l’arma che riesce a trasformare la libertà di espressione in libertà di odio, la miccia che incendia il dibattito pubblico spostandolo dalle regole della democrazia a quelle della tribù. È un pericolo immediato, perché agisce sia come detonatore di piazza sia come solvente lento che corrode le istituzioni.
A giudicare dalla risposta dell’opinione pubblica alla campagna di propaganda pro-Hamas, dagli scioperi e dalle manifestazioni contro Israele, la permeabilità italiana si conferma importante.
4. PERCHÉ POSSIAMO E DOBBIAMO VINCERE QUESTA GUERRA
Il quadro è cupo, ma non irreversibile. La guerra cognitiva è potente perché sfrutta le nostre debolezze, ma può essere neutralizzata rafforzando le nostre forze. La democrazia non deve diventare autoritaria per difendersi: deve diventare più vigile, più trasparente, più responsabile. Vincere questa guerra significa innanzitutto riconoscerla. Non possiamo più illuderci che sia solo un rumore di fondo, un eccesso di polemiche o di propaganda. È una strategia deliberata che punta a logorare le nostre società. Serve un linguaggio politico e istituzionale che chiami le cose con il loro nome, che dichiari esplicitamente la natura del conflitto.
Serve poi un salto culturale: la resilienza cognitiva deve entrare nel bagaglio di ogni cittadino. Le scuole e le università devono insegnare non solo storia e letteratura, ma anche come riconoscere bias, come distinguere fatti da opinioni, come smontare narrazioni tossiche. L’educazione digitale è oggi una forma di difesa nazionale. Occorre, inoltre, che i media recuperino autorevolezza. Ogni titolo esagerato, ogni immagine falsa, ogni notizia non verificata diventa un’arma nelle mani degli avversari. Il giornalismo deve tornare ad essere presidio di verità, anche a costo di rinunciare a qualche clic in più. Allo stesso tempo, le piattaforme digitali devono essere rese responsabili degli effetti delle loro scelte algoritmiche: non per censurare, ma per impedire che la manipolazione sia premiata.
Infine, c’è la dimensione politica. L’Italia deve raccontarsi come ciò che è: una potenza civile affidabile, un mediatore credibile, un Paese capace di empatia ma anche di verità. Difendere le minoranze, garantire legalità, proteggere i cittadini ebrei come barometro della democrazia: queste non sono concessioni, ma affermazioni della nostra identità. La guerra cognitiva vuole convincerci che la verità non esiste, che la fiducia è ingenua, che la democrazia è debolezza. Possiamo e dobbiamo vincerla mostrando che la verità esiste e va difesa, che la fiducia è il cemento della convivenza, che la democrazia è resilienza. È una sfida esistenziale: non riguarda solo l’Italia, ma l’intero Occidente. Ma in Italia, più che altrove, si deciderà se le democrazie liberali sapranno resistere o se saranno trascinate in un vortice di manipolazioni senza ritorno.
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