Fiorella Mannoia ha fatto scuola. Il suo ‘come si cambia’ (sottotitolo ‘per non morire, per ricominciare’) è diventato una colonna sonora, un festival nazionale, talvolta una sagra di strapaese.
Ci sono cambiamenti che sembra esserci quasi lo zampino di innominabili riti esoterici, che vai a sapere il perché, vere e proprie rimozioni di massa che trasformano un provvedimento fortemente avversato, in un incredibile toccasana. O un irriducibile avversario, in un preziosissimo alleato. Strano non averci pensato prima.
Un caso di scuola è il reddito di cittadinanza. Approvato nel 2019 dal primo governo Conte-Salvini-Di Maio, fu ferocemente contrastato dal Pd (compresa la sinistra interna di Andrea Orlando). L’allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti, a caldo disse: “I soldi non vanno messi su quella pagliacciata del reddito di cittadinanza, ma sul reddito di inclusione che già c’è”.
Passano gli anni, e la ‘pagliacciata’ diventa uno strumento insostituibile. “Questo accanimento contro la povera gente non mi sorprende ma mi colpisce. Il reddito di cittadinanza è uno strumento per aiutare le persone povere”, è il commento dello stesso segretario dem, nel frattempo trasferito sui banchi di Montecitorio.
Il provvedimento chiaramente è lo stesso, a cambiare opinione in questo caso è gran parte del Pd. A tal punto che l’ex senatore dem Salvatore Margiotta si chiede se i suoi colleghi si siano dimenticati di aver votato contro allora.
Il caso però è più complesso di così: tra il 2019 ed il 2020, al Nazareno si è diffuso un virus micidiale, un innamoramento pazzesco per Giuseppe Conte. Il premier, prima fieramente attaccato e deriso per il suo curriculum ‘taroccato’, per la sua collaborazione con il prestigioso studio Alpa (agli atti restano le decine di interrogazioni in merito del senatore dem Dario Parrini), poi trasformato velocissimamente in un fortissimo punto di riferimento dei progressisti (sempre il loquace Zingaretti). Numerosi gli ‘untori’, a partire da Massimo D’Alema, Goffredo Bettini, Roberto Speranza, che furono i primi ad invaghirsi del leader 5 stelle. Così improvvisamente vengono oscurati i decreti sicurezza, l’abolizione della povertà, la stretta alleanza con il leader della Lega.
Il mantra della Mannoia però colpisce tutti indistintamente ed ovunque.
Che dire ad esempio di un Renato Brunetta del 2016, in vista del referendum costituzionale, che dice a La7: “ Il CNEL è un etichetta sotto cui non c’è nulla di importante’.
Lo stesso Cnel, anni dopo presieduto da Brunetta in persona, e chiamato in causa dalla premier Meloni la settimana scorsa per pronunciare la sentenza definitiva sul salario minimo. Che cosa ci sarà ora sotto l’etichetta dell’organismo di Villa Borghese? Mistero.
Ed eccoci al provvedimento principe dell’estate, tra vertici agostani a Palazzo Chigi, raccolte di firme in spiagge e vibranti appelli del campo largo (M5S, Pd, Avs, Azione, Più Europa).
Anche in questo caso, a suonare il piffero è Giuseppe Conte, che rivendica orgogliosamente di aver messo la prima firma sulla proposta di legge. Una delle fautrici del momento, ad esempio, è la senatrice di Azione Maria Stella Gelmini, che però nel 2019 da presidente del gruppo di Forza Italia alla Camera liquido’ così la questione a Tg2Post: “Occorre il taglio del costo del lavoro, meno tasse per le imprese, stipendi più alti per i lavoratori. Altro che salario minimo”.
Certo andrebbe anche ricordato, che durante il secondo governo Conte, la maggioranza giallorossa sul tema del salario minimo, non trovò mai l’accordo, per un prolungato dissidio tra Pd e 5 stelle. Così ora che la maggioranza è di destra, la minoranza giallorossa si mobilita per un argomento che avrebbe potuto approvare con l’allora ministro del lavoro Andrea Orlando. Cose che capitano, canterebbe Fiorella Mannoia. Certamente è più facile fare la voce grossa all’opposizione, che trovare un accordo quando si è al governo.
Ci sono casi anche più inquietanti, trasformazioni radicali, mutamenti epocali, che quelli climatici in confronto sono bazzecole. Ad esempio Giorgia Meloni, si fatica a trovare una dichiarazione, un tweet, una battuta della Presidente del Consiglio che sia rimasta invariata negli anni. I temi sono innumerevoli: l’Europa, l’aumento dei costi dei carburanti, il fenomeno dell’immigrazione, le banche, la predisposizione verso il Governo in ambito internazionale.
La leader di Fratelli d’Italia ha iniziato la sua traversata nel deserto da posizioni sostanzialmente antieuropeiste, Bruxelles era l’epicentro cattivo delle politiche contro le nazioni sovrane, Ursula von der Leyen un’avversaria da non votare.
Epica la sua opposizione contro il governo Renzi, attaccato anche a Bruxelles; oggi giustamente chiede rispetto per l’Italia, almeno nelle sedi internazionali e spesso se la prende con i ‘gufi’, impegnati a svolgere un’attività, che fino a pochi mesi fa la assorbiva a tempo pieno.
Passate alla storia le sue sfuriate contro l’aumento dei prezzi dei carburanti; nessuna responsabilità ammessa su quello che sta succedendo oggi intorno alle stazioni di servizio. Colpa dei governi prima, merito del governo oggi per aver messo i cartelli con i prezzi medi, che provocano altri aumenti.
Dal suo infido alleato di governo, Matteo Salvini, maggiore coerenza: era contro l’Europa (anche quando venne varato il Pnrr), oggi è più silenzioso, ma la posizione, neanche troppo oscurata, è rimasta praticamente la stessa.
Il leader della Lega non ascolta Fiorella Mannoia.
