I nodi da sciogliere
L’autunno caldo di Giorgia, le dieci incertezze di Meloni e la campagna elettorale di Salvini
Ha fatto interviste a tutto campo, addirittura multiple, ma non ha sciolto i nodi. Forse perché neppure lei è in grado di avere certezze e può solo mostrarle. “Non temo l’autunno caldo” ha detto la premier nelle interviste, “credo invece che ci sia un’opposizione pregiudiziale ma gli italiani sanno che stiamo facendo il possibile”.
Che sia pregiudiziale, sarebbe nel novero delle normali dinamiche politiche tra maggioranza e opposizione. Il problema è che esistono una serie di dossier delicati e di difficile soluzione con cui il governo è costretto a fare i conti entro la fine dell’anno. Ne abbiano contati almeno dieci.
Il Pnrr, ad esempio, si porta dietro due problemi. Il primo relativo alla cassa corrente. Il ministro titolare del Piano, Raffaele Fitto ha assicurato – e con lui la premier – che entro la fine dell’anno avremo in cassa i 35 miliardi della terza e quarta rata. Entrambe sono state sbloccate, la prima dopo sette mesi di trattative, e però non c’è stata ancora l’erogazione di soldi. Di cui invece le casse dello Stato hanno bisogno come dell’aria. Il secondo problema con cui fare i conti sono proprio i 16 miliardi del Pnrr “tagliati” ai comuni: molti dei progetti sono cantieri avviati, i sindaci temono di non poter più avere quelle opere e soprattutto chiedono i motivi di questa distrazione di fondi.
Settembre e ottobre sono i mesi in cui viene presentata e votata la Nota di aggiornamento al Def e la legge di bilancio. C’è grande attesa perché, da quanto filtra dagli uffici di via XX Settembre, mancherebbero all’appello almeno venti miliardi. E poiché questa sarà la prima vera manovra del governo della destra meloniana, la sensazione è anche questa legge di bilancio non potrà essere all’altezza delle promesse fatte non in campagna elettorale ma anche in questi mesi e settimane. Al momento il governo può contare su 4,5 miliardi stimati con il Documento di economia e finanza uscito in aprile. A questa cifra vanno aggiunti 1,5 miliardi in arrivo dal taglio della spesa corrente dei vari ministeri (300, 500, 700 nei tre anni fino al 2026). La famosa tassa sugli extra margini delle banche partorirà alla fine un topolino da un paio di miliardi. Forse anche meno visto che Forza Italia, e non solo, ha chiesto modifiche in Parlamento. E infatti il crollo di borsa dei titoli bancari si è fermato. Il danno alla credibilità internazionale del paese è stato fatto: nessuno critica l’obiettivo della tassa ma il metodo è stato una lunga somma di errori.
Più o meno si arriva ad una cifra di circa 8 miliardi. Senza dimenticare che il Pil potrebbe fermarsi sotto l’un per cento e quindi anche il valore del gettito potrebbe cambiare. Al ribasso.
Il problema è che servono molti più soldi. Tra le spese indifferibili ci sono i 5-6 miliardi delle missioni internazionali. Solo per confermare l’attuale taglio del cuneo per i redditi fino a 35 mila euro, servono almeno dieci miliardi. Il governo vorrebbe aumentare il taglio delle tasse in busta paga (anche per migliorare le condizioni dei lavoratori poveri) per cui il preventivo di spesa aumenta. C’è il capitolo pensioni: Salvini ha promesso – promette da anni – il superamento della Fornero, ma anche quest’anno dovrà ridimensionare le attese perché non ci sono soldi. Dovrà spiegare, nel tour elettorale che è già iniziato, che sarà possibile, al massimo, confermare Quota 103 (quella del ’23). E già questo costa circa un miliardo. Il ministro della Salute ha chiesto quattro miliardi, ne potrebbero arrivare due e mezzo. Un altro miliardo va messo in conto per confermare la detassazione dei fringe benefit (un altro modo per far salire il valore degli stipendi e dare un po’ di benzina contro il caro vita) e tre miliardi per sistemare, almeno un po’, i contratti scaduti da anni nel settore del pubblico impiego. Se si mettono in fila queste voci – e sono quelle indispensabili – la somma fa tra i 28 e i 30 miliardi. Che vanno trovati.
Al dossier Sanità si collega il Mes, il fondo salva stati che il Parlamento italiano, unico in Europa, deve votare dalla primavera ma ha rinviato all’autunno. Bruxelles ha le antenne accese.
Sempre in ottobre, e in tempo per la legge di bilancio, il governo dovrà trovare una risposta sul “doppio fronte” della tassa sugli extraprofitti delle banche (mal digerito nella maggioranza da Forza Italia e dai centristi di Noi moderati mentre Fdi e Lega tirano dritto) e del salario minimo per combattere la piaga del lavoro povero. Meloni ha affidato la soluzione al Cnel presieduto da Renato Brunetta.
Intrecciato al dossier lavoro povero c’è il tema inflazione. Il carrello della spesa vola sempre con la doppia cifra. La ricetta del ministro Urso è il patto antifinflazione che dovrebbe scattare dal primo ottobre, certamente in ritardo e con pochissime garanzie di successo.
L’autunno dovrà poi dare risposte certe sulla ricostruzione post-alluvione. Il presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, a cui è stato preferito come commissario il generale Figliuolo, è in pressing su Palazzo Chigi: Meloni dice che sono stati stanziati 4,5 miliardi ma in realtà sono arrivati solo 230 milioni, comuni e regioni non hanno più soldi da anticipare e centinaia di frane tengono ancora isolate intere comunità. “Non capisco perché Bonaccini si lamenti. Forse non ha gradito la nomina di Figliuolo?” ha detto la premier nelle interviste collettive. Aggiungendo una coda velenosa: “Guai a chi fa politica sulle disgrazie dei cittadini”. Il problema è che è tutto fermo. E l’inverno non è certo una buona stagione per lavorare.
Sempre in autunno dovrà arrivare la decisione della magistratura, e dell’Agenzia delle entrate, sul caso Santanchè. La morte di Luca Ruffino, presidente di Visibilia editore, non aiuta. E poi l’immigrazione – siamo ormai a centomila sbarchi, mai costi tanti dal 2017 – con la promessa di un nuovo decreto sicurezza che ancora una volta non potrà fare miracoli.
Su tutto questa aleggia la campagna elettorale per le elezioni europee. Salvini è già in tour e avvisa: “Guai a chi mette veti sulle alleanze ad esempio con Marine Le Pen”. Altro tasto delicatissimo. Su cui Meloni alza le mani: “No adesso di questo non mi posso occupare”.
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