“Tra di noi c’è anche chi pensa a gesti eclatanti”.
Michele, uno degli uomini che hanno scelto di aderire e promuovere il ‘Comitato unitario vittime del fango’ a Forlì e dintorni, non esclude più nulla per riuscire a portare l’attenzione che merita il territorio devastato dall’alluvione del 16-17 maggio scorso.

L’esasperazione di tanti romagnoli è vicina al culmine dopo oltre 80 giorni dalla sciagura. Il senso di abbandono che pervade lo spirito di chi ha visto la piena di fiumi e canali travolgere le proprie cose, rischia di far crescere un sentimento di rabbia che – come raccontiamo fin dall’inizio su “Il Riformista” – potrebbe incrinare quella coesione sociale che è da sempre uno dei tratti distintivi di questa terra.

Lo ha confermato nei giorni scorsi il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, parlando di “rabbia sociale”. Le si può dare il nome che si vuole, ma certo è che stavolta – di fronte a migliaia di persone e imprese che hanno visto da un momento all’altro compromesso ciò che avevano costruito e il proprio futuro – la retorica della pacca sulla spalla o l’elogio all’operosità della gente di Romagna, non basta più. Anzi, inizia a indispettire.

E bisognerebbe mettersi nei panni di queste persone per comprendere fino in fondo le loro ragioni. Prendiamo, ad esempio, un residente nella zona del Borgo, a Faenza. Questa città e in particolare quest’area sono state colpite due volte. Non solo dall’alluvione del 16-17 maggio, ma anche due settimane prima da un’inondazione che aveva allagato la zona. Si può dire che Faenza è la città più pesantemente provata dalla furia di acqua e fango. Quartieri come il Borgo sono divenuti ormai spettrali, con tante attività chiuse, abitazioni in cui il tempo si è fermato con le inondazioni; cumuli di rifiuti ancora in attesa di essere ritirati; immobili in stato di abbandono. È la fotografia del sentimento che provano in tanti. Si vive in una condizione di perenne attesa che qualcosa arrivi, che qualcosa succeda; ma a conti fatti non sta arrivando e non sta succedendo nulla. Se non ciò che viene messo in campo dagli enti locali, dal Terzo settore e dalla solidarietà del vasto tessuto di imprese che opera in questo pezzo di Emilia-Romagna.

E poi ci sono le prove commoventi di reazione e orgoglio, come quella della Casa-Museo Guerrino Tramonti, dedicata al grande ceramista faentino: dopo quasi tre mesi, martedì ha riaperto al pubblico. “Quella notte, ho visto entrare in casa il fiume, con tutta la forza devastante di cui la natura è capace – racconta il figlio di Tramonti, che ha raccolto l’eredità del padre come presidente della Fondazione –. Un colpo al cuore vedere le opere sfregiate e umiliate da acqua e fango, muri divelti; poi l’archivio, gli stampi, i cavalletti che mio padre usava per dipingere, che vedevo galleggiare e non potevo accettare marcissero nel fango. Grazie alle istituzioni locali e ai tanti che ci hanno aiutato spontaneamente abbiamo potuto riaprire così velocemente”.

È così dappertutto, anche a Cesena, un’altra delle città alluvionate. “Gli aiuti, quelli veri, rapidi e concreti – ci spiega Mattia dal quartiere Oltre Savio, zona residenziale affacciata su una delle due sponde del fiume che per primo è esondato in quel terribile 16 maggio – dopo il commovente esercito di volontari, sono arrivati dalle associazioni del territorio che sono immediatamente intervenute con veloci analisi delle spese ed immediati sussidi. Dallo Stato finora sappiamo solo che i tempi per ricevere qualcosa sono lunghi, complessi e incerti”. La sua è una delle centinaia di famiglie che ancora non hanno potuto ricominciare a vivere nella propria originaria abitazione, vivendo ospiti di amici, parenti o in situazioni precarie.

In attesa che arrivi qualcosa di più dei 3mila euro del Cis (Contributo di immediato sostegno) stanziati dalla Regione per le famiglie che ne hanno fatto richiesta, chi può sta ricostruendo col proprio lavoro e con in propri soldi, pianificando con i tecnici gli interventi di natura straordinaria che gli immobili dovranno affrontare per la messa in sicurezza. Insomma, la gente si arrangia con quello che ha.

Per molti è un’estate senza vacanze, al massimo qualche mezza giornata di mare sulla riviera romagnola che, tra l’altro, non sta vivendo una delle sue stagioni migliori. Anche perché oltre ai costi fin qui sostenuti e quelli da sostenere, il 31 agosto scadevano i termini per il pagamento delle bollette che erano stato sospese nei giorni del dramma. La data è stata poi posticipata al 31 ottobre da Arera. Ma prima o poi il conto andrà pagato e migliaia di famiglie alluvionate dovranno pagare cifre robuste per le utenze. Compresa l’acqua utilizzata per pulire altra acqua arrivata, assieme a fango e detriti, da fiumi e canali. Un paradosso insopportabile. Non a caso dal Consiglio comunale di Ravenna si è levato un appello per chiedere l’annullamento (e non la sospensione) delle bollette di acqua, luce, gas e rifiuti a tutti i cittadini colpiti dall’alluvione.

“È assurdo che chi ha usato l’acqua per pulire il fango o l’energia elettrica per i deumidificatori ora debba anche pagare bollette salate senza peraltro ancora aver visto indennizzi dignitosi”, afferma il sindaco ravennate, Michele De Pascale. Si attendono risposte, anche su questo.

I rifiuti, nel frattempo, continuano ad essere un problema. Sia nelle province in cui opera la multiutility Hera; ma soprattutto a Forlì, dove il servizio di raccolta è gestito da una municipalizzata di proprietà di 13 Comuni del Forlivese, Alea.

Qui, in particolare nel quartiere Romiti, la situazione è esplosiva, come ci racconta il presidente del Comitato di Quartiere, Stefano Valmori. “Siamo diventati la discarica di un’intera città e non solo: qui vengono sversati rifiuti di ogni tipo con possibili implicazioni anche di carattere sanitario. Non ci sono controlli sufficienti e non si riesce a tenere il passo delle esigenze. La gente si chiede, nella totale incertezza sul proprio futuro, se potrà rientrare nelle proprie abitazioni, se i corsi d’acqua saranno in sicurezza, in quali tempi. Siamo preoccupati”.

E per chi vive lontano dai centri urbani, ci sono altre difficoltà. Le ha palesate in modo esemplare la comunità di Fontanellato, sull’Appennino imolese, con un video pubblicato sui social. Qui, come in tutte le zone collinari, il problema sono le frane. La chiusura delle strade o la limitazione alla circolazione su alcune di esse sta lentamente soffocando le attività economiche che sono insediate nei paesi e nei borghi. Se ne rende conto ogni giorno il sindaco di Modigliana, Jader Dardi, che si batte come un leone per tenere alta l’attenzione sulla sua comunità di 4300 abitanti. Giovedì sera ha riunito tutto il paese in un’assemblea pubblica partecipata da centinaia di persone. “Il nostro problema è il tempo: manca la tempestività degli interventi, la possibilità di avere una prospettiva concreta. Se non ci rimettono a posto le strade, le attività economiche e i cittadini faranno fatica a rimanere qui”. Quanto servirebbe per risistemare tutto? “Abbiamo speso 1 milione e 900mila euro di fondi comunali per gli interventi di somma urgenza, dando fondo a tutto ciò che potevamo e prendendoci la responsabilità di alcuni stratagemmi – racconta Dardi – ma abbiamo finito le risorse. E abbiamo, solo sulle strade comunali escludendo tutto il resto, 153 milioni di euro di interventi necessari per riportare tutto a com’era prima”.

E quanti soldi sono arrivati dal Governo?Zero, nulla – risponde il sindaco di Modigliana – E spesso dobbiamo lottare contro burocrati di enti statali che per non assumersi la responsabilità di fare una firma e affidare i lavori, ci rimandano di settimana in settimana: e ora non rispondono perché sono in ferie”. È rassegnato, ma determinato il primo cittadino: “Dobbiamo fare da soli, sistemeremo uno dei ponti fondamentali per accedere in paese grazie ai fondi privati arrivati da Corriere della Sera/La7, Fondazione Conad e altre imprese. Ma per quanto potremo andare avanti così?”.