C’è qualcuno sano di mente che può pensare che l’Italia possa reggere ancora condizioni di fragilità e vulnerabilità, in una lotta oggi impari per salvare il salvabile? Ma queste drammatiche giornate sotto i colpi dei violenti uragani in Lombardia e del fuoco che arde in Sicilia non impongono una riflessione per avviare la più urgente, grande, utile e diffusa opera pubblica nazionale, peraltro assolutamente alla nostra portata tecnica e finanziaria? Non è un obbligo quello di proteggere le vite umane, le aree urbane, il patrimonio ambientale, evitando anche di far collassare i bilanci dello Stato sotto la spesa di ricostruzioni e risarcimenti che ormai superano largamente i 10 miliardi di euro all’anno?

L’estremizzazione climatica ci fa fatto entrare in un terreno inesplorato, e per come è messa l’Italia, oggi abbiamo un disperato bisogno di ripensare ai fondamentali, alle nostre difese da eventi ad alta capacità esplosiva che mancano o crollano perché sono state tarate per massimi climatici e idrologici previsti nel secolo scorso. È impressionante la carenza o l’assenza ovunque di manutenzioni ordinarie e straordinarie sulle aste fluviali o sui versanti collinari e montuosi boscati e forestati, e anche questo spiega la facilità con la quale subiamo devastazioni con questa facilità. Abbiamo bisogno di combattere l’erosione costiera che colpisce due terzi dei litorali, costruire o sostituire infrastrutture primarie inadeguate o fatiscenti come dimostra la povera Catania lasciata anche senza senz’acqua sotto i 42 gradi.

C’è bisogno di un Piano Generale che metta insieme i primari interventi previsti da una serie di piani largamente rimasti sulla carta e ancora fuori dai radar del Governo: contrasto al dissesto idrogeologico, effetti del clima, acqua e siccità, difesa costiera, edilizia scolastica, edilizia antisismica con ancora oltre 4 milioni di edifici su 12 milioni a rischio lesioni o crolli per terremoti, ripristino di opere idrauliche abbandonate, tutela delle foreste e dei boschi, città resilienti. Analisi costi-benefici alla mano, se confrontati con qualsiasi altra tipologia di investimento, possono dare risultati migliori a parità o con minore spesa, creando più occupazione e in tempi più rapidi e complessivamente attivare almeno 2 milioni di persone con professionalità varie. Per ogni miliardo investito ci sono 20.000 nuovi occupati.

La grande opera pubblica è in realtà una miriade di piccole grandi opere pubbliche, con il triplo obiettivo della riduzione della impressionante vulnerabilità dei nostri sistemi sociali ed economici, dell’incremento della capacità di adattamento, e della gigantesca opportunità di nuova occupazione nelle difese strutturali con lavori, nuove filiere produttive, nuove economie. Questo servirebbe oggi, e i green jobs li chiedono con forza e dati alla mano anche i costruttori, con la presidente dell’Ance, Federica Brancaccio che spinge per “un grande piano di messa in sicurezza del territorio è la priorità assoluta”.

Un piano del genere si fa con la regia della Presidenza del Consiglio. Farebbe bene il Governo a cercare in fretta un terreno unitario e a condividere con tutta la politica, con un accordo, un patto, uno spazio di collaborazione fuori dalla competizione quotidiana, mettendo in piedi strutture tecniche e operative di alto livello per pianificazioni che vadano oltre le brevi durate dei nostri governi. E a presentare il disegno di un piano finanziario integrato, coerente e complessivo, che potrebbe accorpare investimenti già in pancia ai vari ministeri e mai spesi, e rimodulare ancora alcuni milestone del PNRR vista la coerenza con gli obiettivi e con la tempistica del piano europeo.

È possibile immaginare di intervenire con urgenza nei macro-settori più vulnerabili. Tra questi, ci sono i 10.200 interventi per investimenti da circa 30 miliardi di euro del piano di Italiasicura per briglie, argini, gabbionate, aree di laminazione, risagomature di canali, riapertura di corsi d’acqua intombati, idrovore, consolidamento delle 2.400 frane più pericolose sotto osservazione della Protezione Civile – delle 628.000 frane sulle 750.000 europee – con muri di sostegno, ancoraggi, tiranti d’acciaio, piastre metalliche, micropali, iniezioni di cemento e calcestruzzo, reti paramassi. E contenimenti su aree a rischio frana e alluvione presenti nel 94% dei comuni italiani, cioè quasi ovunque. Bisognerebbe poi garantire con urgenza almeno 4 miliardi in più di accumulo di acqua per combattere le siccità più dure e mettere al riparo anche il nord produttivo – ne abbiamo subìte nel 9 negli ultimi 23 anni – ripristinando almeno le 150 grandi dighe sulle 531 che oggi sono senza una goccia d’acqua o in invaso limitato perché interrate e piene di sedimenti mai rimossi, o in attesa di verifiche, e realizzando una parte dei 2000 piccoli bacini idrici, aumentando impianti e infrastrutture e riattivando dove è possibile anche le falde costiere in aree in desertificazione, e programmando adduzioni per il riuso dei parte dei 9 miliardi di m3 di acque reflue depurate che ributtiamo tranquillamente in mare.

Se passiamo alle città, c’è un mare di interventi, dal restyling delle aree costiere che subiranno l’aumento del livello delle acque marine a quello delle aree portuali – 9,2 miliardi sono anche inseriti nel PNRR per 47 porti in 14 regioni – alla difesa delle aree agricole. Le città possono trasformarsi anche in città-spugna, con reti fognarie più efficienti, migliori drenaggi delle acque meteoriche per ridurre i picchi di piena anche nello scarico fognario e i conseguenti riflussi e allagamenti, con nuove infrastrutture come vasche di accumulo e piccoli bacini urbani per usi plurimi, pavimentazioni permeabili con materiali altamente porosi, rain garden, aree verdi di filtraggio, forestazione urbana. Vanno approntate da subito le difese con barriere protettive di materiali naturali, scogliere artificiali, frangiflutti.

E nelle città c’è l’edilizia scolastica cartina al tornasole di problemi. La sicurezza è un obbligo in ogni Comune, in ogni scuola e sono ancora troppi gli edifici vetusti su cui intervenire, e quote intorno al 20% con problemi anche di antisismica o di rischio idrogeologico. Passando all’antisismica, ci hanno sempre raccontato che adeguare il nostro patrimonio edilizio in zone sismiche 1 e 2, le peggiori, alle norme antisismiche costerebbe talmente tanto da renderla mission impossible. È stato ed è il must di tanti ignoranti. Basterebbe rileggersi il report della struttura di missione “Casa Italia” guidata da Giovanni Azzone già rettore del Politecnico di Milano, che nel 2017 calcolava per un vasto piano d’interventi sugli edifici più vulnerabili in muratura un investimento di 36,8 miliardi di euro, con un effetto benefico moltiplicativo sull’economia valutabile in 129 miliardi con oltre 570.000 occupati nell’edilizia.

Lavorando sull’edilizia più a rischio crollo, dov’è più urgente intervenire, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli ingegneri, assumendo come parametro il livello di copertura del rischio di intensità sismica del terremoto dell’Aquila 2009, stima un investimento complessivo intorno ai 100 miliardi di euro nell’arco di 20 anni di utilissimi cantieri edili. Spesa impossibile? Mica tanto, se confrontata con la spesa in corso per le ricostruzioni delle aree colpite dai soli tre grandi terremoti degli ultimi 14 anni: l’Aquila 2009, costato 17,4 miliardi; l’Emilia 2012 costato altri 13 e i terremoti nel Centro Italia 2016-2017 intorno ai 25 miliardi. In soli 14 anni lo Stato ha impegnato la bella cifra di 55,4 miliardi. È più della metà del costo di un piano di prevenzione diffusa mai messo in conto, nonostante sia l’investimento più utile e assolutamente alla nostra portata.

L’arte della manutenzione è un altro serbatoio di occupati. È stata da sempre l’arte dei nostri progenitori che sapevano bene i che le aree boscate devono conservare un loro equilibrio, le piante vanno potate, bisogna garantire un ciclo continuo di manutenzioni del sottobosco, la cura del reticolo di canalizzazioni per permettere uno scorrimento delle acque il più possibile controllato. E guai a squilibrare questo virtuoso equilibrio. Questa regola vale soprattutto oggi che possiamo festeggiare la rivincita dei boschi e delle foreste, la ritrovata ricchezza di biodiversità della penisola. Consola e molto, noi appassionati, l’aumento del 20% della superficie boschiva nazionale negli ultimi vent’anni, e il raddoppio insperato sul manto verde rispetto all’immediato dopoguerra. Oggi alberi e vegetazione occupano un terzo del territorio italiano, per l’esattezza 11.778.249 ettari su 30.133.800. Incredibile, se pensiamo che solo ottant’anni fa erano meno di 5 milioni. Un dato positivo per le importantissime funzioni degli alberi come regolatori di equilibri ecologici e ambientali, per la difesa idrogeologica, il miglioramento della qualità dell’aria anche nelle città attraverso il filtraggio delle impurità atmosferiche, la mitigazione dei cambiamenti climatici.

Detto questo, c’è un però da non sottovalutare. Di questo vasto territorio green, due terzi è in abbandono totale. Il selvatico si è ripreso lo spazio che l’economia rurale gli aveva sottratto. L’emigrazione che man mano ha spopolato tante aree interne, e se la naturalità è un valore in sé, lasciar fare tutto alla natura in tanti casi è semplicemente folle. E oggi con l’abbandono aumentano gli incendi dolosi e colposi, dovuti a delinquenti pronti a uccidere, a mettere a rischio le nostre vite, ad aumentare anche il livello del dissesto idrogeologico perché un incendio brucia le radici degli alberi, rendendo sterile il suolo e aumentando lo scorrimento dell’acqua e lo smottamento di terreni.

Prima che l’abbandono produca effetti ancor più drammatici, bisogna andare al recupero. Ci sono i 125 Consorzi di bonifica organizzati e pronti anche a recuperare e ammodernare e irrobustire tante piccole e grandi opere irrigue, di difese arginali, di aree in frana, canali, adduttrici, aree di laminazione e per gestire meglio le piene realizzate nel corso dell’ultimo secolo con investimenti colossali ma oltre metà sono abbandonate e scomparse persino alla vista. Ogni opera ha una durata naturale già a fronte di ordinarie manutenzioni, ma quando la manutenzione manca perdono presto la loro funzionalità, e in tanti casi annullano la funzione, con un forte abbassamento di quel livello di sicurezza. La rimessa in efficienza è una delle priorità.

Ma all’Italia serve anche l’inondazione di tecnologie in grado di ridurre al massimo i tempi intercorrenti tra l’osservazione dei precursori d’evento – erosioni, incendi, alluvioni – e gli effetti a terra. Le reti 5G e le prossime 6G, con la loro velocità di trasmissione dati elevatissima, un tempo di latenza diminuito enormemente e un’affidabilità senza precedenti, devono essere utilizzate anche per creare una rete di protezione dai grandi rischi, un’applicazione che non viene quasi mai citata tra le opportunità di connessioni Internet of Things, ma è vitale. Sono da colmare alla svelta le clamorose carenze di copertura di rete, il divario digitale, in una parte d’Italia, la più delicata, quella montuosa che dall’Appennino va alle Madonie, ed è l’Italia dei piccoli comuni penalizzata anche dalla ricezione di dati vitali per la sicurezza, che vede l’abbandono costante della montagna.

Nella gamma di sperimentazioni tecnologiche ci sono le torri Inwit che sperimentano in sei comuni montani dell’Appennino centrale e in due parchi nazionali e due riserve naturali con Legambiente un monitoraggio ambientale. E c’è Terna con la sua rete di sensori intelligenti che trasmettono milioni di dati, per la prima volta al mondo, da 26 linee ad alta tensione sulle Dolomiti colpite dalla Tempesta Vaia. Rilevano variazioni meteo come temperatura, piovosità, velocità del vento, umidità, irraggiamento, vibrazioni, inclinazioni e peso delle linee di trasmissione per testare nevicate o possibili frane e intercettare fenomeni microclimatici e meteoclimatici, inizi d’incendi, qualità dell’aria, innesco di smottamenti e altro. Con algoritmi e big data vengono costruiti scenari di previsione e allarme. Oggi ci sono mille ragioni per chiudere la stagione dello Stato che se ne infischia del “prima”, e che paga solo i danni facendo altri danni. E poi chi è che paga il conto delle emergenze continue? Sempre noi.

Erasmo D'Angelis

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