È partito, ha lasciato l’ufficio di via XX Settembre mercoledì mattina dopo la riunione con gli “economisti” della Lega e in pieno terremoto banche. L’agenda è vuota fino al 21 agosto quando ha in programma il palco di Comunione e Liberazione a Rimini. Guai a chi disturba il ministro Giancarlo Giorgetti. Che rappresenta tante cose: il gestore dei nostri conti pubblici; la nostra garanzia di affidabilità rispetto ai mercati internazionali e alla Commissione Ue; colui che anche quest’anno dovrà scrivere la legge più importante, la manovra di bilancio, la prima “vera” del governo Meloni, secondo i criteri che ripete come un mantra ogni volta che può. “Serietà, rigore, responsabilità”.

Dopo tre giorni, fatte posare le polveri, lo si può dire con buona certezza: la norma sulla tassazione degli extraprofitti delle banche grazie alla corsa dei tassi (circa 37 miliardi di utili) è stata gestita male e comunicata ancora peggio. Necessaria e giusta ma sbagliata nei tempi e nei contenuti. Un pasticcio, insomma. Una mossa decisa “contro” il ministro. Contro le banche che hanno da sempre in Giorgetti il più fidato referente. E che il titolare di via XX Settembre ha saputo solo lunedì mattina, poche ore prima che il testo andasse in Consiglio dei ministri. Ieri sera il capo dello Stato ha firmato il decreto che all’articolo 26 prevede la tassa una tantum. Sia chiaro: il tema c’era ed era sul tavolo, non poteva non esserlo considerati i profitti (37 miliardi) fatte dalle banche e non certo per meriti manageriali. Si trattava però di arrivare al punto sulla base di una “autoregolamentazione” su cui il Mef stava lavorando.
Invece c’è stato il blitz di mezza estate, i 9 miliardi andati in fumo in una seduta di borsa martedì mattina. Il suo rifiuto ad andare in conferenza stampa lunedì sera a spiegare la misura dice tutto. Ed è l’unica cosa che conta al di là dei comunicati riparatori del Mef (che hanno fissato il tetto massimo allo 0,1% dell’attivo riducendo almeno in parte il panico dei mercati) e di quelli di Giorgia Meloni che hanno “attribuito” al Mef la scelta della misura.

La tassa ci sarà ma sarà ridefinita meglio in Parlamento, come ha promesso il vicepremier Tajani. Alla fine il prelievo sarà tra i 2 e i 4 miliardi. Si poteva ottenere questa cifra senza questo trambusto? È quello che pensa il ministro. Perché dunque tutto questo? Non c’è dubbio che il titolare di via XX Settembre, con i suoi continui appelli al “rigore” sia un problema per i progetti e le promesse dei soci della coalizione. Ed ecco che quanto è successo è anche un avviso al Mef e al ministro che si accingono a scrivere la Nota di aggiornamento al Def e poi la legge di bilancio. Non ci sono soldi per soddisfare le promesse fatte: non ci sono per la riforma delle pensioni, del sistema fiscale, per il Ponte sullo Stretto giusto per dirne una. Le prime stime parlano di 7-8 miliardi per rinnovare i contratti della Pubblica amministrazione fermi da anni, altri 10 per confermare l’attuale taglio del cuneo, un miliardo per confermare Quota 103 (che non è la Quota 41 promessa da Salvini), altri 3/4 miliardi per attuare almeno la riduzione delle aliquote Irpef (da 4 a 3 così come previsto dalla delega fiscale).

E poi la sanità, l’assegno unico, la missione In Ucraina. Giorgetti confidava nella crescita: andare a +1% del Pil assicurerebbe un buon tesoretto di partenza. Probabilmente saremo sotto. Spending review e taglio delle detrazioni sarebbero parte della soluzione ma alla fine non è mai il momento. Un bel rebus per uno che predica rigore e serietà. Tradotto: guai e fare altro debito. Il segnale è stato chiaro: non comanda il Mef. Una vecchia storia.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.