All’alba dello scorso 30 agosto, davanti al pronto soccorso ostetrico di Monza, è stata trovata una neonata dentro una scatola. Un caso di abbandono come molti. Alternativa certamente migliore al gettarlo nei cassonetti dell’immondizia, come ancora, purtroppo, e più frequentemente di quanto immaginiamo, accade. Questi indizi, da soli (sebbene ve ne siano di ulteriori, e ancor più numerosi), basterebbero per denunciare i limiti di una società considerata “evoluta”, nella quale il “progresso” ha introdotto la possibilità dell’aborto, che il pensiero c.d. progressista assume quale massima espressione di autodeterminazione della donna (osteggiata solamente dai medici obiettori), solo così libera di scegliere in ordine ad atti che coinvolgono il proprio corpo. Chi pensi, o continui a pensare che unicamente l’aborto garantisca una effettiva libertà di scelta della donna, non si avvede, però, del fatto che la possibilità di interrompere la gravidanza apre, in realtà, soltanto ad un bivio: diventare madre o abortire.
Ma un bivio non è ancora libertà. Molte altre strade lo sono. E nonostante ciò, chiunque profili ulteriori prospettive, è, paradossalmente, etichettato come reazionario. L’evoluzione cresce in maniera direttamente proporzionale alla libertà dell’individuo; e la libertà si misura con il numero delle possibilità di autodeterminazione che la collettività organizzata può offrire. La questione, in altri termini, non può risolversi, quasi semplicisticamente, nel decidere: diritto all’aborto si, diritto all’aborto no. Pensare di ridiscutere, nel nostro Paese, la l. n. 194/1984, costituirebbe, infatti, oggi, una discussione antistorica sul piano socio-giuridico, oltre che estremamente “pericolosa” sul piano della adeguata tutela della donna, che, de facto, verrebbe costretta ad accedere a pratiche abortive clandestine, o, laddove possa, a sistemi di shopping abortivo. Occorre, piuttosto, “allargare”, in qualche misura, il piano di valutazione, coinvolgendo nel dibattito politico-giuridico l’intera prospettiva della (crisi della) genitorialità nel contesto del riconoscimento gius-costituzionale. E ciò attraverso l’assunzione (socio-normativa) solidaristica del figlio come “vantaggio”, “risorsa” per la collettività, cui spetta, dunque, il compito di creare le condizioni di incentivo e di tutela (specie – naturalmente – per la donna) perché sia consentita un’effettiva e non solo formale libertà di scelta per la madre.
La soluzione è possibile nella misura in cui l‘apertura alla nuova generazione non resterà un fatto meramente privato di cui il singolo o la coppia dovranno in ogni senso sopportarne il “peso”, ma una questione di pubblico interesse di cui deve farsi carico la collettività, e per essa lo Stato, in attuazione di principi costituzionali già presenti nell’ordinamento. In questa prospettiva, è dell’11 settembre 2015 la prima proposta di legge n. 3306 (presentata da Ignazio La Russa) di modifica della disciplina delle adozioni, in modo da consentire lo stato di adottabilità del concepito. Proposta evidentemente fondata su principi di civiltà giuridica del rispetto della libera scelta della madre e di un giusto assistenzialismo, con effetti, tra l’altro, di risparmio erariale (un neonato abbandonato o non riconosciuto dai genitori viene immediatamente affidato ad una struttura idonea con relativi costi) e di incremento demografico (così tanto auspicato). Si tratta, peraltro, di un modello adozionale sperimentato con successo da molto tempo negli Stati Uniti, paese progressista per definizione, di per sé privo di connotazione ideologica, e idoneo, perciò, ad accogliere consensi politicamente trasversali.
Paradossalmente, proprio in nome del progresso, l’anzidetto progetto di legge ha ripetutamente fallito l’obiettivo, reo di conferire al concepito, in ragione dello stato di adottabilità, “personalità giuridica” e, per questa via, di incidere sulla normativa che consente l’aborto rendendolo nuovamente un crimine penalmente perseguibile. Il progresso è certamente un obiettivo comune e ambìto; ma se non vuole risolversi in un grande inganno, in immagini fallaci, richiede un certo sforzo di analisi. La soggettività giuridica del concepito nel nostro ordinamento è incontestabile (così, da ultimo, l’art. 1, comma 1, della legge 19 febbraio 2004 n. 40). Ed è affermata anche dalla nostra giurisprudenza costituzionale (sentenza 8 maggio 2009 n. 151) che lo riconosce quale titolare di diritti fondamentali. Il concepito, ad esempio, può essere beneficiario di un lascito testamentario o di un fondo fiduciario, oppure, una volta nato (quindi diventato “persona” per l’ordinamento), può chiedere il risarcimento per un danno subito nella sua vita prenatale.
La soggettività giuridica del concepito, del resto, non è ignorata nemmeno dalla legge sull’aborto che, infatti, operando un bilanciamento con l’interesse materno, consente l’interruzione della gravidanza secondo una procedura e in circostanze rigidamente determinate, fuori dalle quali resta un reato. Una donna che preferisca far nascere un concepito con la consapevolezza di affidarlo immediatamente alle cure di una famiglia idonea in lista d’attesa, dovrebbe essere non solo libera di farlo, ma anche sostenuta e tutelata sotto ogni profilo. Il progresso, evidentemente, si è confuso con gli slogan; e rischia di mancare un obiettivo importante nell’evoluzione sociale.
