Chissà se la scenografia non semplicemente essenziale ma addirittura misera e scarnificata all’osso con la quale Mario Draghi ha scelto di presentarsi al Paese è frutto di una precisa scelta. Di certo non erano intenzionali la rigidità e la palese timidezza dell’uomo, quanto di più distante possa immaginarsi dal talento naturale nel bucare lo schermo del suo predecessore. Ma una punta di calcolo potrebbe esserci stata. Il contenuto del messaggio, in fondo, era in controtendenza netta rispetto a quelli di Conte. Non è escluso che il nuovo premier abbia scelto di marcare la discontinuità anche nella forma.
Meditato e voluto oppure casuale, lo stile adottato da Draghi è una rottura rispetto non agli ultimi 3 anni ma agli ultimi decenni, nei quali la comunicazione ha preso progressivamente il sopravvento sulla sostanza, l’immagine si è impossessata del comando e alla fine il testimonial è diventato il prodotto politico stesso, non più solo il suo piazzista. È una storia recente, non recentissima. Nella Prima Repubblica le cose erano molto diverse. Non è che i politici non si preoccupassero dell’immagine, ma se ne occupavano solo “in negativo”. Erano occhiuti quando si trattava di evitare che qualcosa ne scalfisse la presunta autorevolezza, pertanto ci davano sotto di censura. Nel 1959 Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello vennero messi alle porte sui due piedi da mamma Rai per aver ironizzato sull’incidente capitato al presidente della Repubblica Gronchi, finito clamorosamente col deretano sul pavimento nel corso di una serata di gala. Le prese in giro ai danni di Amintore Fanfani costarono il posto al presentatore dello show televisivo, Enzo Tortora: al bando per dieci anni tondi. Persino nei disinvolti anni ‘80 le allusioni alle mani lunghe dei socialisti portarono alla cacciata di Beppe Grillo.
Ma i casi di censura conclamata erano solo la punta emergente dell’iceberg. La presa della politica sui media era salda e quanto alla Rai si trattava di dominio pieno e incontrastato. Gli interventi sui Tg erano all’ordine del giorno. Persino il dc Giorgio La Pira, che ascendeva e discendeva dal cielo con una certa frequenza essendo già in vita una specie di santo, si sentì in obbligo di protestare per alcune inquadrature che, a suo parere, non gli rendevano giustizia. Ma il lavoro sull’immagine si fermava qui. Massima attenzione nell’evitare sfregi. Incuria assoluta nel costruire profili accattivanti o capaci di portare voti. Alla stragrande maggioranza dei leader d’allora simili preoccupazioni sarebbero apparse civettuole, indignitose.
Le cose iniziarono a cambiare negli anni ‘70 e probabilmente più per caso che come conseguenza di una vera strategia di marketing politico. È improbabile che l’austero Berlinguer dedicasse tempo e attenzione alla cura dell’immagine, che tuttavia nel suo caso aveva un peso notevole. Incarnava perfettamente la sua visione del mondo, illustrava nel corpo e nelle fattezze il messaggio politico che voleva lanciare. Diventò un’icona probabilmente senza neppure accorgersene. Di sicuro era invece consapevole di quanto la resa d’immagine giovasse alle fortune del suo partito il leader seduto all’estremo opposto dell’emiciclo parlamentare, il segretario del Msi Giorgio Almirante. Voleva offrire l’impressione di un capo allo stesso tempo severo e rassicurante e per un po’ ci riuscì piuttosto bene, anche se il primo leader a proporsi coscientemente come sponsor del proprio stesso disegno, cercando di veicolarlo nel modo di parlare e di rivolgersi al pubblico, fu nel decennio successivo Bettino Craxi. Rampante, aggressivo, sicuro: un “creativo”, in quegli anni ‘80 segnati dall’egemonia della pubblicità e dall’esplosione dei video non avrebbe potuto trovare di meglio. Craxi era la Milano da bere come la Milano da bere era Craxi ed entrambi erano il nuovo Psi.
La possibilità di tracciare linee genealogiche non toglie niente alla rivoluzione berlusconiana. Bisogna dare a Silvio quel che è di Silvio e la torsione della politica, assediata, vampirizzata e infine conquistata dal primato dell’immagine porta la sua firma. Craxi era un leader politico con una visione che si sforzava poi di incarnare anche negli atteggiamenti e nei codici comunicativi. Berlusconi era il progetto in sé. Poteva essere un giorno leader della rivoluzione liberale e quello dopo profeta della resurrezione democristiana senza che nessuno facesse una piega perché l’idea, il progetto, il programma, i princìpi fondativi restavano gli stessi, essendo tutti racchiusi nella figura del capo, fondatore e proprietario del partito azzurro.
Berlusconi non aveva bisogno di dire cosa volesse fare: parlava la sua biografia e bastava aggiungere la promessa di turno, di solito il taglio delle tasse, all’inizio il “milione di posti di lavoro”, perché il gioco fosse fatto. Nessuno votava Forza Italia. Moltissimi votavano Silvio Berlusconi. Neppur Donald Trump, per altri versi simile al Cavaliere, regge il confronto. The Don si proponeva come rappresentante di fasce sociali scontente e incarognite, pur non facendone parte. Offriva, se non un progetto, almeno una promessa di revanche. Berlusconi offriva solo se stesso, il suo modello, la sua storia, La novità si abbatté come un ciclone su un mondo politico che era ancora distante anni luce da quella dimensione e lo travolse. Nel giro di pochi anni anche i politici reduci da Frattocchie, la rigida “scuola di partito” del Pci, si affidavano a spin doctor più o meno capaci, scommettevano sull’apparenza, prendevano lezioni per imparare a bucare il video e migliorare la resa d’immagine. Non tutti hanno puntato sull’apparenza allo stesso modo, dopo Silvio. Prodi, il rivale, giocava in contropiede, in realtà puntando sullo stesso effetto ma capovolgendo il modello.
Monti e Letta non si sono mai trovati a proprio agio in un’arena che non gli si confaceva né poco né punto. Renzi, al contrario, aveva scommesso tutto proprio sulla sua stessa figura spavalda, aggressiva, “rottamatrice”. Un caso paradossale: il ragazzo di Rignano è in realtà un politico capace e abile, mentre proprio nell’offerta d’immagine incontra il punto debole che ne ha decretato la sconfitta. Con Peppi Conte il processo si è definitivamente compiuto. Non è solo questione di Rocco Casalino, per quanto il portavoce-regista sia stato magistrale nel costruire il personaggio passato in pochi anni da totale anonimato a vertici di popolarità inauditi per un premier in carica.
Ma c’è di più: l’uomo può vantare un talento naturale, una capacità di entrare in connessione con i sentimenti degli spettatori raro, una sensibilità teatrale innata per il gesto e il tono giusti al momento giusto. Berlusconi aveva la sua biografia a supporto. Conte neanche quella. L’esistenza o meno di un disegno politico, le effettive capacità di leadership restano un’incognita. L’immagine e la popolarità sono bastate a renderlo, “il punto d’equilibrio più avanzato possibile”, come da definitiva e desolante definizione di Nicola Zingaretti. Almeno su questo fronte, Draghi ha già cambiato strada.
