Coronavirus, direttrice Rebibbia anticipa governo contro affollamento carceri: 50 detenuti a casa

Mentre il governo si mostra incapace di decidere come porre seriamente e tempestivamente rimedio al rischio di contagio e alla sofferenza nell’unico luogo in Italia dove non deve valere la misura cautelare di “rarefazione sociale” essendo al contrario tollerato – contro le più elementari leggi della fisica e dei diritti umani – un sovraffollamento del centoventi per cento rispetto alla sua capacità di carico, come al solito, tocca a chi opera sul campo supplire alle mancanze della politica e dell’amministrazione.

Annamaria Trapazzo dirige da un anno la Terza Casa Circondariale di Rebibbia, circa 80 detenuti, di cui una cinquantina ammessi alla semilibertà o al lavoro esterno. I detenuti raccontano che alle sette di mattina è già al lavoro perché non ama affidare nulla al caso e non vuole farsi cogliere alla sprovvista né dalle avversità né dalle opportunità offerte dal caso. Il suo obiettivo è sgombrare il più presto possibile un settore del carcere da adibire alla quarantena nella malaugurata evenienza di un contagio. La sua missione è alleggerire il peso della detenzione sulla vita dei detenuti e il peso dei detenuti sulla struttura di detenzione. La sua formazione giuridica la porta a mantenere l’equilibrio tra due principi fondamentali: il diritto alla salute e il diritto alla libertà.

Il decreto del Presidente del Consiglio dell’8 marzo, in cui si raccomanda di “valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”, non era ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale quando lei aveva già iniziato a elaborare il suo progetto, a un tempo, di prevenzione e liberazione: adottare una variazione del programma di trattamento dei detenuti in semilibertà “in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri”, come è scritto nel decreto. È andata al Tribunale di Sorveglianza per concertarlo col Presidente. È già tanto che non l’abbiano presa per pazza, perché il regime di semilibertà non prevede il pernottamento fuori dal carcere.

Venerdì scorso i detenuti l’hanno vista all’opera sui loro fascicoli, sabato e domenica ha “precettato” il personale competente per studiarli e suddividerli: da una parte i detenuti che possono uscire per scontare presso il proprio domicilio una pena, anche residua, inferiore a due anni; dall’altra quelli da eventualmente scarcerare con l’affidamento in prova al servizio sociale o con la liberazione condizionale. Per esporre e condividere il piano di decarcerizzazione, lunedì a mezzanotte ha convocato i detenuti che ammettono: «La vediamo sempre in sezione, la sua presenza fisica e il suo sostegno sono per noi importanti, soprattutto in situazioni difficili come queste, in cui abbiamo la sensazione che nessuno si prenda cura di noi».

Annamaria Trapazzo vuole mostrare che invece lo Stato è presente, che sta lavorando per loro. Il dialogo coi detenuti è una sua pratica costante, la chiave di volta per evitare disagi, proteste o violenze, perché il bisogno esistenziale prioritario di un detenuto è quello di essere riconosciuto, ascoltato e sostenuto. Per questo i detenuti hanno deciso di collaborare, di affidarsi a lei e attendere con pazienza, convinti che stava puntando al loro stesso obiettivo.


Così, mercoledì pomeriggio, per nulla imprevisti, sono arrivati i primi provvedimenti dei magistrati di sorveglianza: in attesa di decisioni, provvedimenti e tempi migliori, tutti i detenuti semiliberi sono andati a casa per 15 giorni con possibile rinnovo della licenza. In una sezione di 50 persone sono rimasti solo in quattro, detenuti ammessi al lavoro esterno che per legge non possono usufruire di licenze, ma anche per questi la direttrice è già all’opera. Li ho sentiti alcuni di quelli mandati a casa, felici della licenza e fieri della loro Direttrice, delle tre educatrici, del Garante e dei magistrati di sorveglianza che con lei hanno collaborato.

Dal timido spiraglio fatto intravedere dal decreto, la direttrice della Terza Casa ha aperto un varco più grande che indica una via possibile per tutti i direttori e i magistrati di sorveglianza italiani. Alcuni, come la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, stanno studiando le misure per alleviare il carico intollerabile del sovraffollamento carcerario. Altri, come Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza a Spoleto, di fronte al blocco degli spostamenti in tutta Italia imposto dal governo per il pericolo di contagio, hanno scelto una linea di apertura di credito nell’opera di reinserimento che i detenuti potranno vantare in futuro: la liberazione anticipata è accordata anche a chi non è in prossimità del fine pena; i permessi premio, il lavoro esterno e la semilibertà possono essere concessi a chi li merita già oggi, anche se diventeranno esecutivi alla fine dell’emergenza. Sembra poco, ma per un detenuto è il segno di un’attenzione alla sua persona, il riconoscimento della sua esistenza, la percezione che lo Stato non li ha abbandonati, che l’ordinamento penitenziario non è stato del tutto sospeso.

La licenza di stare a casa per 15 giorni concessa a tutti i semiliberi della Terza Casa di Rebibbia non è la soluzione strutturale di “rarefazione sociale” che solo l’amnistia e l’indulto offrirebbero al problema del sovrannumero di fascicoli nei tribunali e di esseri umani nelle carceri. Perché il meglio non sia nemico del bene, come Nessuno tocchi Caino, con Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti abbiamo proposto anche una moratoria dell’esecuzione penale, sia degli ordini di esecuzione pena che dell’esecuzione della pena stessa, volta a ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria.

La storia delle cinquanta licenze concesse a Rebibbia è solo una boccata d’aria per detenuti e operatori della Terza Casa, ma racconta di un’aria diversa che è un’epopea di civiltà, umanità e ragionevolezza al cospetto della furia cieca delle Erinni giustizialiste, sorde all’ascolto e mute di parola, che popolano la nostra società e agitano il nostro tempo con il loro cupo mormorio che accusa, maledice, incute timore e invoca vendetta.

Comunque, vale anche per loro il nostro dire “Nessuno tocchi Caino” e “Spes contra Spem”, rivolto allo Stato, al Potere che cede, degrada alla aberrante, violenta logica per la quale, nel nome di Abele, diventa esso stesso Caino, uno Stato-Caino da convertire dal male al bene, dalla violenza alla nonviolenza, dagli stati di emergenza in cui a emergere è lo Stato, agli stati di emergenza in cui a emergere è la coscienza e lo Stato di Diritto.