Ormai manca poco. Ancora qualche giorno e poi, finalmente, si voterà. Ma proprio ora comincia il periodo decisivo, quello in cui tanti elettori maturano la scelta di voto finale scegliendo tra i diversi partiti salvo quelli, non pochi, che decidono solo il giorno prima: secondo un sondaggio Ipsos pubblicato sul Corriere della Sera il 9 settembre, il 51% degli elettori, pur indicando una preferenza, si dichiara in realtà ancora indeciso tra due o più forze politiche. E proprio ora (a partire da 15 giorni prima del voto) è scattato (a causa di una norma a nostro avviso discutibile) il divieto pubblicazione dei sondaggi sulle intenzioni di voto. Non possiamo, dunque, che avanzare delle ipotesi.
Gli scenari possibili rimangono molti. La vittoria del centrodestra appare, almeno fino a questo momento, più che probabile. Ma quali saranno i contorni di questa affermazione? Quali gli equilibri interni e i destini degli altri partiti? Sono domande importanti perché saranno questi gli elementi determinanti per la formazione e l’assetto del futuro Governo. Alcuni osservatori prevedono un forte effetto “bandwagon”, vale a dire il passaggio, all’ultimo momento sul carro del vincitore, con un forte afflusso, alla fine della campagna elettorale, verso il partito della Meloni, specialmente al Sud. È un evento possibile, specialmente se, come ha auspicato Letta, il climax della competizione di fa decisamente bipolare. Il segretario del Pd ha insistito infatti, ancora di più negli ultimi giorni, sullo scontro tra due fronti, invocando il voto per sé “a difesa della democrazia”, come si è visto anche dai manifesti utilizzati per la comunicazione. Si tratta però di una strategia che pare abbia funzionato solo in parte.
Parrebbero mostrare questa situazione non solo la scarsa tenuta del Pd in termini di intenzioni di voto misurate dai sondaggi pubblicati precedentemente al blackout, ma anche, specialmente, la crescita delle “terze forze” che agiscono sullo scenario politico, anch’essa suggerita dai risultati delle ricerche di opinione. Non si tratta solo del duo Calenda Renzi, che pure ha visto un considerevole incremento di consensi (giungendo nell’ultimo sondaggio pubblicato prima del divieto a superare il 7%), ma specialmente, della vera e propria “rimonta” dei 5stelle, che, in quella stessa sede, sfiorano il 15%, con una affermazione molto difforme sul territorio nazionale e punte assai elevate nel Meridione e molti minori consensi al Nord. La causa di questo exploit, si è detto, sta nella promessa della prosecuzione del reddito di cittadinanza, che invece il centrodestra vuole ridimensionare se non abolire. Ma non si tratta solo di questo: dopotutto anche Letta ha detto più volte di volere mantenere il RdC, senza trarne però vantaggio in termini di voti. Il “segreto” della tenuta dei pentastellati sta anche molto nella popolarità personale di Conte, conquistata ai tempi della Presidenza del Consiglio e mantenuta (secondo diversi osservatori, inspiegabilmente) sino ad oggi. Anche in questo momento, infatti, “Giuseppi” è il politico in attività più popolare d’Italia (consenso al 43%, superiore a quello della Meloni, 41% e, di gran lunga a quello di Letta, 34% e Salvini, 33%), secondo solo a Draghi (popolarità al 67%, tutti i dati sono di Demos pubblicati nell’ultimo sondaggio prima del blackout), che però in questo momento è fuori dall’area di gioco.
Resta il fatto, comunque che, contrariamente a quanto molti – Letta in primis – hanno previsto (e in certi casi auspicato), la competizione nel nostro paese è in realtà tutt’altro che bipolare, malgrado la normativa elettorale, il “Rosatellum”, spingesse verso questo scenario. La presenza di diversi competitors, oltre ai due principali, rende di fatto più incerto – e per certi versi interessante – lo scontro in atto. Abbiamo sottolineato, comunque, che la vittoria del centrodestra sia molto probabile, anche se si sono visti in passato risultati elettorali che smentivano gli scenari suggeriti dai sondaggi (in parte anche per gli spostamenti di opinione verificatisi negli ultimi giorni prima del voto). Ma, pur essendo in vantaggio, anche la coalizione data per vincente ha numerosi problemi e ne avrà verosimilmente ancora di più in futuro, quando sarà necessario passare dalle promesse elettorali alle decisioni di Governo. Non solo data la debolezza crescente – a fronte della superiorità di FdI – dei suoi alleati, specialmente della Lega (all’interno della quale, se il Carroccio segue il trend di continua flessione indicato dai sondaggi, secondo i quali è superato persino del M5s che, fino a poco tempo fa, era dato per spacciato, la leadership di Salvini potrebbe, dopo le elezioni, essere messa in discussione), ma, specialmente, quando le contraddizioni attuali – sin qui espresse in mere dichiarazioni – verranno al vaglio delle scelte che il futuro esecutivo dovrà assumere.
Dopo Draghi la leader dei FdI, che probabilmente gli succederà a Palazzo Chigi, si troverà di fronte ad una sfida molto difficile a causa della nuova emergenza economica che l’invasione russa dell’Ucraina ha precipitato sui paesi membri dell’UE. Ma le difficoltà di Meloni, che avrà probabilmente l’intelligenza di farsi aiutare da tecnici esperti e competenti, non finiscono di fronte alla difficile situazione economica ed alla inevitabile caduta della reputazione del nostro prossimo governo che prenderà il posto di quello guidato da Mario Draghi. Che piaccia o meno è quello che dicono, magari esagerando, le cancellerie europee. E la reputazione è, accanto al voto, una componente essenziale della vita politica dove non esistono stati monadi senza porte e finestre. Le difficoltà che si profilano hanno anche – e forse per la prima volta in modo dirompente per l’Italia – a che fare con le differenze relative alla politica estera fra i due maggiori partner della coalizione verosimilmente vincente: Meloni e Salvini. È vero che si cerca di negarle o almeno minimizzarle durante la campagna elettorale, ed è vero anche che gli elettori da noi, come altrove, non votano pensando alle posizioni dei partiti sulla politica internazionale. Ma certo queste contano: e non solo perché l’avventurismo militare di Putin ha ricreato uno scontro fra la Russia post-comunista ma neo-imperiale e l’occidente rappresentato dall’Europa (con l’eccezione ungherese) e dall’America, sicuramente finché c’è Biden alla presidenza.
Queste differenze contano perché la posizione della Lega e del partito di Conte (oggi in competizione fra di loro per il terzo posto dietro FdI e il PD), ostili alle sanzioni nei confronti della Russia ed all’invio di armi, che sole permettono all’Ucraina di resistere alla invasione, non solo rompono l’unità del fronte occidentale al quale Meloni resta fedele, ma ammiccano al “partito del riscaldamento” e nei fatti ritornano alla prospettiva pericolosissima, come abbiamo chiaramente sperimentato, della dipendenza dell’Europa dalle fonti energetiche russe. Le divergenze dentro la coalizione di destra rischiano di indebolire il futuro governo. Il rovesciamento dei rapporti di forza fra le componenti della alleanza FI, Lega, FdI frustra Salvini e Berlusconi che hanno dovuto entrambi cedere al partito del 4% delle politiche del 2018 una decisa supremazia che, grazie a Giorgia Meloni, FdI ha acquisito a loro spese. I partners della destra sono in realtà un po’ come separati in casa. E questo non aiuterà il prossimo governo. Il partito di Meloni ha beneficiato della sua lunga permanenza all’opposizione e malgrado tutto, e il passato che pesa ancora simbolicamente, essa rappresenta la novità per un elettorato, il quale le ha provate tutte finora senza mai essere soddisfatto, se non dall’esperienza Draghi, che però non è candidato. Anche questa è in certa misura una anomalia della politica italiana che alla idea dell’alternanza democratica ha sostituito il comportamento di Urano, che mangia i suoi figli.
Fuori metafora: i vincitori che il corpo elettorale prima esalta e poi abbatte, chiedendo loro quello che non possono dare. Forse anche per colpa di chi promette nella campagna elettorale il paese di cuccagna, che naturalmente non potrà realizzare. Questa è un’altra particolarità della democrazia italiana, che Draghi aveva cercato di emendare. È ad essa che i partiti dovrebbero rinunciare se non vogliono danneggiare un sistema politico basato su elezioni libere e competitive. E rinunciando ai miracoli risparmiarsi il ritorno dei “podestà” – gli stranieri (nel nostro caso i “tecnici” estranei alla classe politica) a cui le città italiane del Pre-Rinascimento facevano ricorso, in caso di conflittualità interne che rendevano impossibile il buon governo della città. Al riguardo, è utile ricordare che l’Italia è la sola grande democrazia europea che negli ultimi 30 anni per far fronte alle sue difficoltà, soprattutto economiche, ha dovuto far ricorso a governi guidati da personalità, in genere esperti di economia e di finanza, estranei ai partiti politici e non eletti dai cittadini. Quelli, che con un termine ambiguo vengono chiamati “tecnici”, per evitare di dire competenti, che sarebbe percepito come politicamente scorretto dai titolari della rappresentanza politica elettiva.
Carlo Azeglio Ciampi (1993), Mario Monti (2011), Mario Draghi (2021); lo stesso Lamberto Dini diventa presidente del consiglio il 17 gennaio 1995 senza mai essere stato eletto prima, lo sarà poi alla Camera nel 1996. Questa anomalia deve far riflettere. Da un lato, perché è singolare che si debbano cercare dei tecnici ovvero specialisti al di fuori dei ranghi dei politici di professione – nella Università o soprattutto nella Banca d’Italia. Dall’altro, perché la neutralità di questi primi ministri, estranei alla politique politicienne (quella dei partiti in competizione fra di loro sul mercato elettorale dove la principale competenza sembra essere non tanto quella del buon governo del paese, ma quella della capacità di vendere la propria immagine presso gli elettori), questa relativa estraneità, dicevamo, rispetto alle parti della competizione politica permette loro, almeno per un certo lasso di tempo, di ottenere la fiducia dei partiti in parlamento. Per un certo lasso di tempo, perché i partiti appena raddrizzate le sorti (economiche) e se possibile la reputazione del paese (soprattutto nella UE) si liberano dei tecnici e riprovano a governare il paese. Accadrà anche questa volta, dopo le nuove elezioni?
