Corte Penale Internazionale (CPI), Giustizia Penale Internazionale (GPI), crimini internazionali: un acceso dibattito, interno ed internazionale, è tornato ad occuparsi di questi temi. Ne parliamo col prof. Francesco Palazzo, emerito di diritto penale nell’Università di Firenze, co-presidente (col prof. Fausto Pocar) della Commissione ministeriale per la redazione di un progetto di Codice dei crimini internazionali.
La GPI vive una stagione di crisi, che sembra la crisi di un’utopia: vale ancora la pena impegnarsi per essa?
Consentimi una premessa: la domanda viene da un avvocato perché gli avvocati sono costituzionalmente difensori dei diritti della persona nei confronti del potere. Lo sono nel processo, a difesa del cittadino contro i possibili abusi del potere giudiziario; ma il potere è prima di tutto potere dello Stato, di cui i crimini internazionali sono la più barbara manifestazione. Dunque, è naturale che gli avvocati abbiano una sensibilità “costituzionale” verso la GPI. Inoltre, i crimini internazionali rappresentano un’esorbitanza del male, così che anche la reazione di giustizia può essere altrettanto esorbitante: anche qui la funzione equilibratrice dell’avvocatura è irrinunciabile. È vero che la GPI attraversa un momento di crisi, ma non dovremmo adoperare il termine “utopia” se l’abbiamo a cuore. Coi suoi limiti, è una realtà viva e funzionante, come attestano i procedimenti dinanzi alla CPI. Inoltre, parlare di utopia accredita l’idea di una realtà apparente, per la quale neppure valga la pena di spendersi. Al contrario, la GPI è il baluardo contro le manifestazioni più atroci del potere politico: debole e flebile quanto si vuole, ma non possiamo farne a meno.
L’attuale crisi nasce soprattutto dall’atteggiamento assunto da alcuni governi verso la CPI come organo giurisdizionale sovranazionale: è una crisi legata alla contingenza politica o trae ragioni più in profondo?

Alla GPI si obietta anche che il suo esercizio, in situazioni di guerra, può ostacolare il ritorno alla pace: lo si è detto sia per Gaza che per l’Ucraina.
Il 9 maggio si è tenuta a Leopoli una riunione dei rappresentanti di molti Stati europei, Italia compresa, dell’Ue e del Consiglio d’Europa (che esprime la Corte EDU), e si è preso l’impegno di istituire un tribunale ad hoc per giudicare l’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. Anche questo è un segnale di crisi: si regredisce allo stadio precedente dei tribunali ad hoc e post factum. Ma nello stesso tempo, un segno di vitalità poiché la CPI non ha giurisdizione per l’aggressione della Russia. Qui si innesta il tuo interrogativo: è opportuno che, mentre si svolgono colloqui di pace, nella stanza accanto ci si impegni su un tribunale ad hoc per giudicare il crimine di aggressione? Cicerone ritorna, attualissimo.
L’attività della CPI assomiglia talvolta alla giustizia delle nazioni più forti: l’Occidente vuol fare giustizia altrove ma non consente che quella giustizia sia esercitata in vicende che comunque lo riguardano.
Occorre distinguere. Un conto è la GPI dei più forti, che istituiscono tribunali ad hoc in situazioni di debolezza politica: non è questa la meta ideale della GPI, che qui si connota di una componente di forza. Proprio per questo lo Statuto di Roma va salvaguardato, perché rappresenta un superamento di questi limiti. Certo, la CPI dà l’impressione di muoversi a due velocità: va preso atto, con realismo, che imbastire un processo contro personalità di uno Stato forte apre al pericolo di ritorsioni, anche nei confronti della CPI. Il sistema dello Statuto di Roma ha però chance maggiori di garantire l’esercizio di una GPI più condivisa: chiamando gli Stati a farsi partecipi del sistema, si attenua il rischio di ritorsioni, perché la giurisdizione può essere esercitata direttamente dagli Stati forti, che non hanno ragione di temere ritorsioni né da altri Stati né da autori di crimini rispetto ai quali non hanno alcun collegamento. Al contempo, la possibilità che gli Stati forti esercitino una giurisdizione universale su fatti rispetto ai quali non hanno collegamento, sollecita gli Stati che lo hanno a esercitare per primi la giurisdizione, per non restare alla mercé dei primi. È un gioco di equilibri, fondato sul principio di giurisdizione universale, che presuppone però una forte maturazione politica. Purtroppo è vero che non siamo ancora capaci di una GPI “uguale per tutti”. Ma siamo sicuri che le singole giustizie nazionali siano uguali per tutti?
Veniamo alle questioni italiane: l’adeguamento incompleto allo Statuto di Roma e le vicende del caso Almasri.
L’Italia si è adeguata allo Statuto, nel 2012, disciplinando gli obblighi di cooperazione processuale con la CPI, ma non si è ancora munita dei necessari strumenti di diritto sostanziale; il nostro ordinamento non prevede in quanto tali i crimini contro l’umanità, né il crimine di aggressione. Questo ci espone ad un esproprio di giurisdizione: non possiamo perseguire quei crimini, siano essi commessi in altri Stati o nel nostro, ciò che consente l’intervento della CPI, e persino di un altro Stato aderente, per fatti che ci riguardano o su persone presenti sul nostro territorio. La nostra è quindi una posizione di debolezza, non di forza. Quanto alla vicenda del generale libico, parlo da giurista: la legge del 2012 stabilisce un obbligo di cooperazione con la CPI sostanzialmente incondizionato. Il mandato di arresto viene trasmesso al Ministero, che lo trasmette a sua volta alla Corte e alla relativa Procura. Dalla legge di attuazione non si ricava un potere di valutazione in capo al Ministro: se mai un simile potere esistesse, sarebbe della Corte d’appello. In tema di estradizione è previsto che il Guardasigilli possa ritenere prevalenti esigenze di sicurezza dello Stato e non dar seguito alla richiesta: ma l’estradizione è un istituto molto diverso da quello del mandato di cattura della CPI. Mi è parsa più lineare la posizione del Ministero degli Interni, che ha appunto evocato l’esistenza di problemi di sicurezza nazionale. Di certo, i ministri non avevano alcun potere di sindacare nel merito l’atto della CPI. La vicenda, insomma, è politicamente comprensibile, perché era in gioco uno Stato col quale abbiamo rapporti rilevanti: meno chiare e un po’ eccentriche rispetto al quadro normativo sono state semmai le motivazioni addotte.
