Quelli partiti a Sharm el Sheikh, in Egitto, sono l’ultima spiaggia per la pace a Gaza. Due anni dopo l’attacco che ha sconvolto il Medio Oriente, la “guerra di Gaza” si è trasformata in una lunga agonia politica e umanitaria. Il movimento islamista Hamas, che il 7 ottobre 2023 aveva annunciato la “battaglia del Diluvio di Al-Aqsa” come l’inizio di un “trionfo storico”, oggi si presenta a Sharm el-Sheikh in cerca di un salvagente politico.

Della sua forza d’urto di un tempo resta ben poco. I droni e le colonne di fumo che per mesi hanno scandito i bollettini di guerra hanno lasciato spazio alle trattative discrete tra delegazioni, intermediazioni egiziane e pressioni internazionali. Hamas non è più l’attore armato che dettava i tempi del conflitto, ma un soggetto indebolito, costretto a trattare secondo condizioni fissate da altri. In due anni la rete militare e politica del movimento è stata colpita in profondità. Gli omicidi mirati di figure chiave – da Mohammed Deif a Yahya e Mohammed Sinwar, fino a Ismail Haniyeh e Saleh al-Arouri all’estero – hanno decapitato la struttura decisionale. Sul terreno, la resistenza armata si è ridotta a scontri sporadici in quartieri devastati. Parallelamente si è aperta una frattura tra la leadership “interna” rimasta a Gaza e quella “esterna”, dispersa tra Doha, Beirut e Istanbul. Le divisioni hanno reso visibile una crisi strutturale, fino a pochi anni fa impensabile dentro Hamas.

Anche sul piano politico, la parabola è drastica. Dopo vent’anni di dominio sulla Striscia, Hamas ha perso gran parte del sostegno popolare. A Gaza, dove la distruzione è totale e la popolazione sopravvive tra macerie e campi profughi, la parola “resistenza” è stata sostituita da una sola richiesta: fine della guerra, fine del governo di Hamas. Il contesto internazionale ha accentuato la marginalità del movimento. L’Assemblea dell’ONU ha riconosciuto con il “New York Declaration” la necessità di un’uscita di Hamas dal governo come condizione per rilanciare la prospettiva dei due Stati. Una linea ormai condivisa da 142 Paesi. Secondo fonti palestinesi citate da “Sky Arabia”, Hamas si presenta ai negoziati con due delegazioni separate. Una, guidata da Khalil al-Hayya, dialoga indirettamente con Israele tramite mediatori egiziani e americani; l’altra tratta con l’Autorità Palestinese la “fase post-bellica”. Il movimento avrebbe accettato l’ipotesi di una tregua di sette giorni per facilitare lo scambio di ostaggi e avrebbe aperto alla consegna delle armi a un ente di sicurezza congiunto egiziano-palestinese, in cambio di garanzie contro la persecuzione giudiziaria dei suoi dirigenti.

Tra i punti di rottura, il rifiuto di consentire l’arrivo di Tony Blair come “amministratore del territorio”, proposta sostenuta da Washington e Londra. Dal fronte opposto, il messaggio di Fatah è netto. “L’unità palestinese comincia con la fine del potere di Hamas e il ritorno della sovranità alla legittima leadership dell’OLP”, ha dichiarato Jibril Rajoub, membro del Comitato centrale del movimento. Intanto la spinta dei tradizionali alleati di Hamas si è affievolita. L’Iran è sotto forte pressione internazionale, Hezbollah e gli Houthi sono in una fase di contenimento, mentre Qatar e Turchia si sono dette pronte a sostenere una transizione ordinata del potere a Gaza. Cambia così la scena rispetto al 7 ottobre 2023: da un assalto armato destinato a “cambiare la storia”, a una trattativa stanca e senza clamore, dove la posta in gioco non è più la vittoria, ma la sopravvivenza stessa del movimento. Da “Tempesta” a tregua forzata: due anni dopo, Hamas non combatte più per Gaza, ma per restare in vita.

I principali attori del Medio Oriente stanno giocando una partita complessa nella trattativa. I negoziati mediati da attori regionali come l’Egitto stesso e il Qatar, mirano a finalizzare un cessate il fuoco duraturo e avviare uno scambio di prigionieri. Altri paesi arabi e musulmani sostengono il piano di pace USA, vedendolo come un’opportunità concreta per mettere fine alla sofferenza e inserire il dialogo al centro della soluzione. Il Qatar punta a consolidare il proprio ruolo di mediatore. I suoi interessi strategici includono la stabilizzazione della regione per proteggere i propri giacimenti di gas condivisi con l’Iran (South Pars), mantenere la base militare statunitense di Al Udeid sul proprio territorio e promuovere un’agenda di soft power che rafforzi la sua influenza. L’Egitto agisce come mediatore storico, con un forte interesse a prevenire l’instabilità al confine con Gaza, dove il passaggio di Rafah è cruciale per il controllo dei flussi di persone e armi.

Il Cairo sostiene un cessate il fuoco di 60 giorni come primo passo verso una soluzione duratura, ma insiste che qualsiasi forza internazionale a Gaza debba essere autorizzata dall’ONU e accompagnata da un orizzonte politico, come la creazione di uno Stato palestinese. L’Iran non partecipa direttamente ai negoziati, ma esercita un’influenza strategica attraverso il sostegno a Hamas e altri gruppi armati. I suoi interessi includono il contenimento dell’espansione israeliana e il mantenimento di una “cintura di resistenza” contro Tel Aviv. Tuttavia, dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Iran mediato dal Qatar nel luglio 2025, Teheran ha moderato la sua retorica, pur continuando a sostenere Hamas.