Cade l’aggravante mafiosa, ed è giusto. Così il reato di calunnia semplice è prescritto, ma uno dei tre agenti accusati di depistaggio, Michele Ribaudo, è anche assolto. Nulla di scandaloso, nella sentenza pronunciata ieri sera dal Presidente del tribunale di Caltanissetta, alla presenza di Lucia e Manfredi (Fiammetta lontana dalla Sicilia), due dei tre figli di Paolo Borsellino, dopo nove ore di camera di consiglio. Ancora una volta una procura esce sconfitta da un processo di mafia, anche se in realtà non in senso stretto. Proprio perché le cosche non c’entravano niente, nel più grande depistaggio di Stato, quello della costruzione a tavolino di un finto pentito, Enzino Scarantino. Depistaggio che non aveva la finalità di aiutare Cosa Nostra, questo è sicuro. Questo è stato l’errore della procura di Caltanissetta, ed è sempre il solito, quello di vedere mafia dappertutto. Per poi perdere l’occasione di un pezzettino di verità e di giustizia.
Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (in aula erano presenti solo gli ultimi due) erano accusati di calunnia, ma soprattutto, sospetto infamante, con l’aggravante di aver favorito la mafia, con i loro comportamenti. Un processo di cento udienze, iniziato nel novembre 2018, che è diventato simbolico, da quando si è capito che solo di lì poteva emergere un po’ di verità, un pezzetto di giustizia. Tanto che nell’aula del tribunale di Caltanissetta, davanti al Presidente Francesco D’Arrigo, a rappresentare la pubblica accusa non ci sono soltanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, che hanno chiesto condanne severe, 11 anni e 10 mesi per Bo, 9 anni e mezzo ciascuno per gli altri due. Non fa mancare la sua presenza, nei giorni della requisitoria, lo stesso capo della procura Salvatore De Luca. Sono qui, aveva detto, per testimoniare la presenza dell’intera Procura. Anche lui però, aveva finito per scaricare ogni responsabilità solo sui “pesci piccoli”.
Ma non era il più grande depistaggio di Stato? I magistrati, tutti innocenti, dunque? Ecco il capolavoro del Procuratore De Luca, successore di Tinebra: «Non si tratta di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia». Si spara alto, dunque, per non perdere il vizio di dare del mafioso a chicchesia, ma poi si mette il silenziatore, puntando il dito solo sui tre poliziotti, che avrebbero fatto tutto da soli, magari insieme allo “sbirro” morto La Barbera. Ma non alla toga morta Tinebra. Né ai vivi della Procura di Caltanissetta che “gestirono” il pentimento e il pentito, e neanche a tutti quelli che avrebbero potuto far scoppiare il bubbone già trent’anni fa. Sarebbe sufficiente prima di tutto far mente locale su quegli appunti scritti con grafia femminile che Scarantino teneva in mano quando doveva andare a testimoniare, dopo esser stato chiuso per ore negli uffici con i pubblici ministeri. Anche con lo stesso Tinebra, ha detto Ilda Boccassini. Chi gli dava l’imbeccata? Nessuno, e forse la grafia femminile è quella della moglie. Ma ci sono stati i ruoli attivi e anche quelli passivi.
Innocenti, nessuno. Basterebbe ricordare quel che disse Antonio Ingroia nella sua veste di testimone in aula nel dicembre 2021, e poi ancora nel maggio scorso davanti alla commissione antimafia siciliana. Quando ricordò come, da giovane pm palermitano, fosse stato incaricato di sentire quel “pentito” e le cose che aveva da raccontare su Bruno Contrada e su Silvio Berlusconi come “narcotrafficante”. Il magistrato era andato, e si era reso conto subito del fatto che Enzo Scarantino diceva cose a casaccio, che inventava. Così lasciò perdere. Ci ponemmo il problema, come Procura palermitana, ha poi aggiunto, se aprire un fascicolo nei suoi confronti per il reato di calunnia, ma “c’era il rischio che se si incriminava per calunnia questo pentito si sarebbe innescata una guerra”. Era dunque così importante, questo ragazzotto. Ma per chi? Chi avrebbe innescato un clima di guerra se qualcuno avesse osato toccarlo? La procura di Caltanissetta? E perché? Il giovane Ingroia era uno dei tanti che avrebbero potuto smascherarlo trent’anni fa. Non lo ha fatto.
Il capitolo Ilda Boccassini, che con il collega Roberto Saieva nel 1994 fiutò da subito l’imbroglio, entra ed esce dalle cronache come un fiume carsico. Ma solo di recente, ed è un peccato, come ha ricordato indignata Fiammetta Borsellino, che sui media non se ne sia parlato allora, quando lei e il suo collega avevano inviato una relazione al procuratore di Caltanissetta Tinebra e in copia agli uffici di Palermo retti da Giancarlo Caselli. Siamo nel 1994, a due anni dalla strage. Si sarebbe potuto fare allora quel che si è cominciato trent’anni dopo. Denunciare pubblicamente la costruzione a tavolino del “falso pentito”. Boccassini avrebbe potuto. Caselli avrebbe potuto. Ma anche Ingroia. E anche Di Matteo, che invece difese la genuinità della testimonianza di Scarantino anche pubblicamente in un’aula di tribunale. E il procuratore di Palermo, insieme alle massime autorità, dal pg fino al questore e al prefetto –non ci stancheremo mai di ricordarlo- in una conferenza stampa non solo valorizzò l’indifendibile reputazione di Arnaldo La Barbera, ma disse anche che coloro che mettevano in dubbio la parola di Scarantino stavano dalla parte della mafia. Tra questi “amici dei mafiosi” c’era anche qualche parlamentare.
Se dobbiamo credere alla buona fede di tutti loro, di chi non parlò pubblicamente, così come di chi al contrario parlò solo per mettersi al fianco dei depistatori, facciamo fatica a prestare orecchio a quel che si è sentito ieri nell’aula da parte dei difensori dei tre imputati. Che hanno insistito nel descrivere un picciotto tossicodipendente della Guadagna con la terza elementare, come unico organizzatore e realizzatore del “più grande depistaggio dello Stato”. Ci rendiamo conto che stiamo parlando degli anelli finali della catena, anche se non proprio gli ultimissimi, visto che, per l’esperienza diretta di quegli anni nelle carceri di Pianosa dove fu costruito il “pentimento” di Scarantino, di agenti di polizia penitenziaria “pacifisti” non ne abbiamo proprio incontrati. Le torture ci furono e non le commise di certo personalmente La Barbera. Per ora abbiamo visto sul banco degli imputati solo persone accusate di calunnia.
Ma abbiamo un tarlo, e ci domandiamo: tutti i magistrati che hanno incontrato in quei giorni Enzo Scarantino e altri finti pentiti di serie B che avevano fruito del “trattamento Pianosa”, li hanno sempre trovati integri, nel corpo e nello spirito? La dottoressa Annamaria Palma e il dottor Carmelo Petralia, che sono stati prosciolti dall’accusa di calunnia e salvati da un Csm distratto e in cui “aleggiava”, come ha scritto Luca Palamara, il nome di Di Matteo che rendeva improponibile qualunque curiosità su quei fatti, hanno sempre tenuto le palpebre abbassate? Lo interrogavano con le bende sugli occhi e gli orecchi chiusi? Sarebbe bastato un piccolo sospetto su un occhio tumefatto, su una “caduta dalle scale”, per intuire quel che stava succedendo. Senza dover arrivare all’omertà di Stato che è partita dalle torture nelle segrete di Pianosa per arrivare al Csm e ai procuratori generali. Per poi atterrare ieri nell’aula del tribunale di Caltanissetta con un pugno di mosche in mano. Nemmeno la verità storica.
