In piena facoltà, Signor Presidente, parafrasando Boris Vian – che pure si riferiva a vicende ben più tragica e terribili – le scrivo la presente, che spero leggerà. Anch’io ho ricevuto una cartolina, che “terra terra” mi dice che non sono un cittadino di questo Stato, come per svariate decine d’anni ho creduto d’essere; sono piuttosto un suddito di un’entità che mi considera solo per i doveri, e non mi riconosce diritto. È una storia non breve, Signor Presidente. Una storia che comincia nel lontano 1996. Si tratta di spese sostenute per una vicenda cominciata nel 1996. Quel giorno Erich Priebke, uno dei responsabili dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, viene assolto da un tribunale militare; dopo la guerra si è rifugiato in Argentina. Il Centro Wiesenthal, specializzato nella caccia ai nazisti, lo rintraccia a San Carlos de Bariloche; un giornalista dell’americana “ABC”, messo sull’avviso, lo intervista. Scoppia il caso: Priebke viene espulso, estradato in Italia.
Processato per il massacro alle Ardeatine, un tribunale militare lo assolve. Mezza città di Roma si ribella. Il tribunale per tutta la notte è come cinto d’assedio, fino a quando non interviene il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick; trova un marchingegno giuridico che consente di riprocessare Pribke; che alla fine di un lungo iter giudiziario è riconosciuto colpevole, condannato all’ergastolo (data l’età, lo sconta ai domiciliari). Per ragioni imperscrutabili Priebke ritiene chi scrive e l’allora capo della comunità ebraica Riccardo Pacifici, responsabili di quello che definisce un sequestro di persona. Siamo assolti in primo, secondo, terzo grado. Per quello che mi riguarda, la storia finisce. Pago di tasca mia l’avvocato, non chiedo un centesimo di risarcimento: ne avrei avuto ribrezzo. Qui subentra il teatro dell’assurdo. Anni dopo i fatti si fa via l’Agenzia delle Entrate: bisogna pagare le spese processuali. Ho vinto, perché devo pagare? La risposta: “Priebke risulta nullatenente”. E allora? “Allora lo Stato non può rimetterci: paga chi vince”. Danno e beffa: “Se crede però si può rivalere nei confronti di Priebke”.
Per farla breve: lo Stato non riesce a farsi pagare, si rivale sull’innocente; poi l’innocente se la veda lui con il colpevole. Ecco, Signor Presidente: da questa risposta, “Lo Stato non può rimetterci”, ho cominciato a prendere coscienza che io – sia pure in parte infinitesima, non faccio parte dello Stato, non ne sono un piccolissimo membro. Io devo pagare, lo Stato, il “mio” Stato, non può rimetterci. Mi ribello; mi rivolgo a quelle istituzioni in cui ancora credevo; sollevo il caso mediaticamente. Qualcuno allora s’inventa un escamotage: un anonimo benefattore paga per noi. Non è vero: non c’è nessun anonimo benefattore. E’ una bugia, raccontata per metterci a tacere.
Quest’anno arriva una nuova ingiunzione; c’è anche da pagare una mora. Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Beppe Giulietti si schiera al mio fianco; mi rivolgo ai presidenti di Senato e Camera, al ministro della Giustizia, ai leader di partito presenti in Parlamento; chiedo: è giusto quello che accade? Devo davvero pagare? Silenzio. Indifferenza.
Nel frattempo arriva la terza ingiunzione. A questo punto, mi arrendo. Vergognandomi come un ladro, pago. Sono stato accusato per qualcosa che non ho fatto; sono stato riconosciuto innocente; devo pagare al posto del colpevole: un criminale nazista condannato all’ergastolo per le Ardeatine. Mi brucia, non lo nascondo; ma più di tutto il silenzio, l’indifferenza di chi avrei voluto trovare al mio fianco e invece mi ha voltato le spalle. Ecco perché mi “dimetto” da cittadino, mi considero parte della folta legione dei sudditi di questo disgraziato Paese.
Colgo l’occasione per ringraziare Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma: volevano pagare loro al mio posto. Preferisco che quella somma sia dirottata verso qualche ente che assiste i membri più bisognosi della comunità. Ringrazio i colleghi che mi sono stati vicini. Assicuro che ricordo bene quanti hanno taciuto, voltato la testa senza muovere un dito. È un ricordo che porterò sempre con me. L’ultimo gesto è rivolgermi a Lei, Signor Presidente, che finora non mi sono sognato di scomodare, sapendola impegnata in cose molto più urgenti, necessarie, importanti. La mia vuol essere solo una notifica.
Da oggi nel mio studio campeggia, incorniciato, il modulo dell’“Agenzia delle entrate” che intima, pena il sequestro, di pagare 302 euro e 23 centesimi per le spese processuali sostenute.
Ora non chiedo più nulla. Non mi sento più cittadino con doveri che osserva (il pagare, per esempio le tasse al centesimo; credere che votare non sia solo una facoltà, ma anche un atto di rispetto verso le istituzioni); da oggi mi considero un suddito oppresso da una entità nemica. Vinto e preda di radicale amarezza; vittima di quello che ritiene essere un sopruso consumato in nome del popolo italiano. Mi scusi per il tempo che le ho sottratto. Le auguro buon lavoro e buona giornata.
