Quando si scriverà la storia di questi anni sempre più feroci, su una cosa tutti converranno: in pochissimo tempo il mondo è stato travolto da crisi che nessuno aveva saputo prevedere e fronteggiare rischiando il caos e la sopravvivenza. Dopo la pandemia e la guerra, un terzo apocalittico cavaliere avanza corrodendo il pianeta come la siccità. È la condanna e forse la fine delle democrazie liberali nel mondo.
Dal Pakistan alla Cina, dall’Iran alla Russia passando per l’Africa e le Repubbliche post-sovietiche con mezza America Latina si levano voci infuriate contro la libertà, figlia dei salotti e dei tumulti illuministi dell’Europa e dell’America. Queste voci sono più o meno uniformi: “Noi non siamo liberali. Noi non vogliamo essere democrazie liberali come quelle con cui l’Occidente si sta suicidando trascinandoci nel suo baratro: non riconosciamo affatto la libertà come valore perché per noi i valori sono altri”. Segue la lista dei nuovi valori che vanno dall’armonia di Xi Jinping, L’autocrazia imperiale di mezzo e Putin, fino alle teocrazie in perenne colloquio col terrorismo. È un momento di svolta planetario in cui non si può evitare di schierarsi. E da noi?
Se ascoltiamo quelli che una volta si chiamavano i discorsi da bar dello sport o da scompartimento ferroviario, dobbiamo fare una fatica bestiale per fingere di non vedere ciò che è già sotto i nostri occhi: la disaffezione e il crescente disinteresse e delusione per la nostra democrazia liberale e delle istituzioni create sotto la tutela delle grandi potenze di un tempo e dopo un immane conflitto e sconfitta. Quella disaffezione sta arrivando al livello di liquefazione, quello che con benevolenza chiamiamo populismo. Purtroppo, il populismo non è un’erbaccia fra i sassi ma una delusione progressiva che investe chi è nato da poco e non capisce il dovere di una memoria che vada più in là della loro infanzia. Queste nuove persone e cittadini esigono per diritto naturale la libertà di scegliere, uno Stato che provveda in maniera perfetta ai pochi servizi di sua competenza e il rispetto di tutte le norme che garantiscono la parità senza privilegi, senza trucchi, senza baronie, come più o meno accade in tutte le democrazie dell’occidente.
Quando si va a stringere l’area delle richieste fondamentali di una popolazione riluttante arrestare perché è pronta ad espatriare, si scopre che la semplice libertà e il suo esercizio, con le necessarie regole e garanzie è tutto ciò che gli italiani del terzo millennio chiedono e che la politica con tono molto supponente chiama “riforme”. Le riforme non sono quasi mai il nome dell’avvio di una modernità, ma piuttosto dei tentativi di mettere delle pezze a un organismo smagliato sgangherato e ingiusto, che era vecchia forma di Stato illiberale.
Alle origini questa fu la ragion d’essere del piccolo partito liberale e dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, ma poi tutto è cambiato e tutto più ancora sta cambiando ad una velocità che porta ha un orizzonte sconosciuto. La guerra in Ucraina ha imposto ad ogni paese nel mondo di rivedere tutte le proprie energie e strategie, umane e delle tecnologie. L’Italia è spaventosamente indietro nella semplice acquisizione dei dati di fatto perché è diventato un paese culturalmente arretrato non per mancanza di cervelli ma per disinteresse nella comunicazione.
Questo in fondo è il grande tema di che cosa sperare dalla voglia di vivere di Forza Italia che fra un anno andrà alla conta elettorale delle elezioni europee e anche del rinato partito liberale che benché ultracentenario, muove i suoi primi passi. Lo stesso dicasi per le forze che si dicono genericamente centriste tanto per ritrovarsi con un GPS ma che possono vivere soltanto se nutriranno la fame di libertà reale la moderna di chi è nato da poco e non vuole sentirsi sempre martellato dai ricordi di un passato non vissuto. È il momento della grande occasione che passa invisibile, o se preferite: come il “dito e la luna” che è la più grande causa di strabismo politico.
