Clima” è una parola inventata dai greci antichi e indicava lo studio di quell’insieme di (allora) inspiegabili fenomeni meteorologici che modificavano l’atmosfera e influivano sulla vita con siccità, carestie e alluvioni devastanti. A κλιμα, i primi astronomi e filosofi aggiunsero il “logos”, il pensiero, e quindi la parola “climatologia”. Passati all’incirca 2500 anni, il monitoring dei parametri climatici ha fatto aggiungere ai climatologi il concetto del “Tipping Point”, che indica il punto di non ritorno delle quantità di carbonio sparate in atmosfera dalle attività umane in un flash nella vita del pianeta, l’infinitesimo matematico di appena 150 anni di storia industriale.

Tipping Point è lo scenario estremo rilevato dall’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change. Sotto questo nome va la task force di 2000 scienziati di 195 Paesi istituita dall’Onu nel 1988 per valutare l’evolversi del clima a livello globale, che vede tra i suoi anche gli esperti dei centri di ricerca italiani. Valuta la nostra penisola come una delle aree del mondo sulla linea del fuoco, hot spot di eventi di inedita violenza e frequenza per il trend in salita del calore globale nella nostra regione del Mediterraneo.

L’escalation di eventi meteoclimatici, che continuiamo a definire “estremi” quando ormai sono ordinari, non ammette più ritardi, e il nostro clima cambiato è segnalato dal passaggio traumatico da una media di cinque o sei eventi catastrofali per decennio fino al Novecento, ai circa 100 all’anno dal Duemila concentrati in aree più ristrette ma altrettanto devastanti. Tra questi: nubifragi, alluvioni-lampo, temporali, temporali autorigeneranti, cicloni tropicalizzati, uragani mediterranei o medicane, tempeste di vento, mareggiate e una infinità di frane e smottamenti e di incendi.

La devastante alluvione con tipologia 1966 in Romagna è un brutto campanello d’allarme. Come la quarantina di aree costiere – rilevate in uno studio dell’Enea e del Centro Euromediterraneo per i cambiamenti climatici – a rischio sommersione per l’aumento del livello dei mari, anche fino a 80 centimetri a fine secolo ma con problemi già dal 2030, con modifiche delle morfologie costiere dove si concentra oggi oltre metà popolazione italiana con industrie, agricoltura, turismo. Se la temperatura dovesse sfondare 1,5 gradi su scala globale, il nostro termometro potrebbe salire di 2 gradi. Tante nostre zone rischierebbero un tracollo.

Questa accelerazione era già evidente una decina di anni fa, e per una volta eravamo partiti in tempo. Correva l’anno 2012 quando l’allora Ministro dell’Ambiente Corrado Clini decise per l’avvio dell’iter del PNAC, ponendo l’Italia all’avanguardia degli studi scientifici sugli impatti climatici e l’azione. L’Italia aveva anticipato il resto dell’Unione predisponendo un complesso lavoro di analisi e soluzioni avviando il “Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici”, la madre di tutte le battaglie climatiche, ambientali, energetiche, economiche.

La spinta alla concreta definizione del piano e alla sua “messa a terra” arrivò con il Governo Renzi. L’allora ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti affidò, nel luglio 2014, la stesura dei corposi dossier a 120 scienziati, ricercatori ed esperti di ogni università, ente scientifico e ministero, coordinati da Sergio Castellari, fisico e climatologo dell’Ingv e oggi alle Nazioni Unite. La road map della “Strategia nazionale di adattamento” trovò la sua corsia preferenziale in particolare dopo l’accordo sul clima sostenuto e siglato dal nostro governo a Parigi il 12 dicembre 2015, resa ormai vincolante dall’Unione Europea per tutti i paesi membri per spingere al raggiungimento degli obiettivi 2030 di riduzione delle emissioni di Co2.

L’Italia aveva disegnato il piano finanziario con investimenti in infrastrutture sia green sia hard con tutta l’innovazione disponibile per 361 azioni-obiettivo elencate in ognuno dei 27 macro-settori vulnerabili della nostra penisola, con indicatori di rischio e soluzioni per mitigare gli impatti attesi su acque, aree urbane e industriali, ecosistemi e biodiversità, aree in dissesto geologico-idrologico-idraulico, aree in desertificazione, degrado del territorio, foreste, agricoltura e produzione alimentare, pesca, turismo, mobilità e trasporti, industrie, infrastrutture, patrimonio culturale, energia, salute, energia.

Per una volta anticipavamo tutti con il piano dei piani per proteggere meglio gli italiani e per rilanciare lavori e economie con una miriade di opere dalle installazioni di infrastrutture green nelle città alle ri-localizzazioni con arretramenti dalla linea di costa verso l’interno di colture agricole e aree industriali e turistiche a rischio sommersione da rialzo del mare, dal restiling delle nostre aree portuali e delle nostre città costiere allo sviluppo delle reti idriche ed energetiche e di trasporto.

Il team di esperti disegnò quindi il perimetro degli indicatori e delle azioni con il triplo obiettivo della riduzione della vulnerabilità dei sistemi naturali sociali ed economici, dell’incremento della capacità di adattamento sui territori, e della capacità di cogliere le nuove gigantesche opportunità economiche e di nuova occupazione nella transizione energetica, ecologica e di difese strutturali. Con questa logica fu costruita la strategia italiana, e ogni dossier tecnico-scientifico e tecnico-giuridico traguardava tre fasi di pianificazione: a corto, medio e lungo termine, per l’adattamento al 2020, al 2030 e al 2050 con pacchetti di interventi in una Italia divisa in macro-aree climatiche.

Nell’ottobre del 2017 il Piano fu sottoposto a consultazione pubblica, con osservazioni recepite da istituzioni, enti, soggetti, associazioni ambientaliste e di settori produttivi e altri. Era insomma pronto per essere adottato già nel 2018, 5 anni fa!, in formato open, in grado cioè di adattarsi nel tempo. L’Italia aveva un quadro molto chiaro e aggiornato e scientificamente certificato delle problematiche di impatto, delle norme da innovare e da integrare, delle azioni e degli investimenti da avviare nell’adattamento, nella mitigazione e nella prevenzione. E aveva chiaro anche il quadro delle opportunità nella creazione di nuove filiere produttive, nuove economie e nuovi lavori dall’edilizia all’industria all’agricoltura alla mobilità e alla produzione energetica.

Cosa è successo, invece? È successo che dal governo Conte 1 il Piano è rimasto sostanzialmente a prendere polvere in vari cassetti, ritornando sempre al punto di partenza e facendo perdere le sue tracce, insieme a quelle degli urgenti passaggi successivi e cioè il Piano d’azione, il Piano della Governance e il Piano Finanziario. E solo pochi mesi fa, il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin lo ha recuperato rimettendolo in consultazione con annessa “Strategia Nazionale di Adattamento Climatico” verso “decisori pubblici nazionali, regionali e locali”.

Risultato: a ben 11 anni dall’avvio della sua definizione, il mitologico PNAC è ancora una corposa versione priva della necessaria cornice finanziaria, delle connessioni non solo con il PNRR ma con tutti i piani nazionali e regionali di settore, e privo di una regia e di governance nazionale e regionali. Sullo sfondo resta, infatti, la prevista creazione di “una struttura di coordinamento, una struttura di supporto tecnico-scientifico, un organo consultivo e una struttura di governance dell’adattamento”, e dell’“Osservatorio Nazionale” che dovrà rendere operative e “mettere a terra” misure e azioni per l’adattamento. Il riavvio dell’ennesimo percorso di aggiornamento somiglia tanto al Groundhog Day, il giorno della marmotta e del ricomincio da capo. E del resto basta leggere il sottotitolo del frontespizio del PNAC – “Giugno 2018. In via di approvazione”-, per farsi un’idea di come affrontiamo enormi problemi di sicurezza nazionale. E cioè accumulando un ritardo clamoroso di 5 anni di fronte a rischi dove tempo e velocità di azione sono tutto in una Italia continuamente devastata con vittime e enormi danni da eventi meteo-climatici.

Le analisi tecniche e scientifiche del Piano sono peraltro molto ben fatte, recepiscono i dati raccolti dall’Ispra e da tutti gli enti di ricerca come Ingv, Enea e Cnr, università, e con le proiezioni climatiche dell’Ipcc dell’Onu. Gli scenari climatici variano dall’aumento al 2100 di un solo grado centigrado di temperatura media rispetto ai livelli pre-industriali ma in presenza di “azioni drastiche” di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, fino allo scenario peggiore con la temperatura media che schizza al drammatico più 5 gradi con inevitabili impatti. Più sale la temperatura media globale, più aumentano i disastri naturali. E ridurre le quantità di carbonio in atmosfera è l’unica delle 5 leve che noi umani possiamo azionare, non potendo variare l’orbita terrestre né modificare le correnti oceaniche o la posizione dei continenti e né tanto meno quella del sole. Tra le 5 cause che cambiano il clima sulla Terra, 4 hanno tempi e cicli di decine di migliaia di anni, e solo una di decine di anni ed è l’unica leva modificabile del carbonio.

Per questo, l’impostazione iniziale del piano aveva come strategia quella della costruzione del consenso finora mancato sulle azioni per la decarbonizzazione in difesa di noi stessi. Abbiamo capito che la transizione ecologica con una impostazione apocalittica o solo prescrittiva e abbastanza colpevolizzante produce effetti contrari, e crea rigetto. Non parte se non si riparte dalle opportunità per tutti, dai posti di lavoro e dalle economie da mettere in pista, da una road map positiva con una sequenza contemporanea di azioni immediate, concrete e vincenti peraltro con la certezza di ridurre i danni investendo molto meno di quanto potremmo spendere in futuro per ripararli, ma aumentando Pil e occupazione come già dimostra la competitività internazionale di tante aziende del Made in Italy.

Restano due domande: riuscirà il Governo Meloni a trasformare l’ultima versione in una concreta strategia nazionale pianificata con l’indicazione dei fondi e della loro destinazione, delle governance, delle fasi di attuazione e dei sistemi di controllo? Riusciremo ad evitare di continuare a fare la parte degli orsi polari in bilico sui lastroni di ghiaccio che si assottigliano stando fermi, o ci diamo seriamente una mossa almeno per non superare il punto di non ritorno?