Uno “spiacevole incidente”. È così che gli Stati Uniti hanno definito l’abbattimento di un drone turco da parte di un loro F-16 nel nord della Siria. Ed è questa la linea che è stata seguita tanto da Washington quanto da Ankara. L’obiettivo è apparso subito quello di evitare che il duello aereo si trasformasse in oggetto di discussione politica, e sembra che per ora Stati Uniti e Turchia concordino sull’evitare che l’incidente del drone diventi un caso diplomatico. Per il Pentagono l’episodio ha una dinamica chiara. Un drone delle forze aeree turche era impegnato nel bombardare le forze curde dello Ypg in un’area non lontana dalle truppe Usa. Il velivolo si è avvicinato troppo alla “restricted operating zone” statunitense, facendo scattare la richiesta di decollo immediato di un caccia. Il jet ha svolto il suo compito fino in fondo. Il problema però è che quel drone non era un mezzo nemico, bensì alleato.
Di un Paese che, va ricordato, è impegnato in operazioni che considera esclusivamente di “antiterrorismo” e che si rivolgono, oltre al Pkk, a quelle forze che per Washington e alcuni comandi occidentali hanno rappresentato un partner sia in chiave anti Isis che anti Bashar al Assad. Un vero e proprio grattacapo strategico che è stato più volte oggetto di discussioni e negoziati tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e i leader Nato, dal momento che la Turchia non ha mai fatto mistero di ritenere prioritario distruggere tutte le forze paramilitari curde presenti entro i propri confini e al di fuori di essi, sia con i raid aerei che con operazioni militari via terra. L’incidente svela quindi ancora una volta quel complesso – e per certi versi anche inestricabile – meccanismo strategico che agisce in Siria. E sembra confermare ancora di più la delicata relazione tra Ankara e Washington che si snoda anche sul binario dei rapporti triangolari con i curdi.
I funzionari della Sublime Porta hanno preferito evitare di parlare dell’abbattimento, affermando solo di avere “perso” il drone – senza specificare come – ed evidenziando invece gli obiettivi raggiunti durante le varie operazioni in corso dopo il fallito attentato ad Ankara. Operazioni che, a detta delle Fds, avrebbero portato anche all’uccisione di cinque soldati turchi, anche se la Difesa smentisce. Tutto si regge sul rapporto fragile ma allo stesso tempo necessario tra i due alleati. Non a caso, il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha avuto un colloquio con l’omologo turco Yasar Guler e lo stesso è accaduto tra i vertici delle forze armate: Charles Quinton Brown e Metin Gurak. L’amministrazione Biden spera che questi chiarimenti istantanei evitino lo sbarco dell’affaire drone nell’aula del parlamento turco, dove si gioca la partita decisiva della ratifica dell’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica.
Tuttavia, al netto dei rapporti bilaterali, certo fondamentali, l’episodio va letto anche in chiave locale, visto che in questo incidente nei cieli siriani, il cosiddetto “elefante nella stanza” è proprio il Paese in cui è avvenuto tutto, ovvero la Siria. Una nazione che vive un limbo fatto di conflitti locali e globali, giochi diplomatici, sanzioni e lotta al terrorismo e che continua a essere quasi dimenticata da parte delle cancellerie di tutto il mondo. Il sangue nel Paese mediorientale continua però a scorrere e di recente è anche aumentato sensibilmente. Due giorni fa, l’attentato all’accademia militare di Homs ha provocato più di 80 morti: per l’Osservatorio siriano dei diritti umani, addirittura oltre i cento. Una strage che ricorda i momenti più oscuri della guerra e di quando le bandiere nere dello Stato islamico devastavano non solo la Siria ma anche l’Iraq. L’attacco sembra sia avvenuto con i droni: stessi mezzi che poi hanno tentato di colpire anche durante i funerali di alcune vittime. Il terrore sembra così intenzionato a prendere di nuovo terreno in un Paese che prova a vivere la sua difficile normalità, ma dove la guerra appare tragicamente endemica.
